Che la Disney fosse un gigante dai piedi d’argilla, adesso sono in molti a dirlo, osservando che la società che ha creato Topolino e i parchi di divertimento non ha più un centro del suo business stabile.
Il ruolo di Pixar nel mostrare quanto fosse forte la debolezza dell’azienda in un settore i cui risultati apparentemente sono molto forti è stato centrale: solo l’ultimo film, Alla ricerca di Nemo, ha fruttato circa 800 milioni (un miliardo, secondo le stime migliori) di dollari che vengono ripartiti tra le due compagnie. Pixar l’anno scorso ha contribuito per più della metà degli oltre 600 milioni di dollari di fatturato della Disney Studios (con un solo film rispetto agli otto girati dagli studios).
Ecco allora l’ipotesi che la rottura di Steve Jobs con Disney, vista l’inconciliabilità caratteriale e di visione economica tra il Ceo di Apple e Michael Eisner (noto per avere un pessimo carattere) potrebbe in realtà essere stato il prologo studiato a freddo insieme con il Ceo di Comcast, che pochi giorni dopo ha annunciato l’offerta di acquisto delle azioni agli azionisti di Disney, una offerta pubblica mirata alla scalata per il controllo della società nella più classica delle manovre finanziarie.
Per quanto riguarda l’avvenire di Pixar, nel caso (per ora certo, ma nel futuro non è detto) che Disney non sia più il partner, i quattro studios di Hollywood con cui iniziare a marzo le contrattazioni per il prossimo accordo sono MGM, Warner Bros, Sony e Fox.