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Cosa manca al Mac? Una nuova iApp

Il danno è fatto. Ormai spotlight, la tecnologia pervasiva che consente di cercare ovunque le informazioni relative ai documenti del Mac, è un vecchio amico. Con qualche limite, come ha spiegato anche Steve Jobs che vuole ulteriormente migliorarlo con MacOs X 10.5, ma non si può più neanche pensare a una vita senza di lui. Eppure, qualche problema lo porta.

Il fatto è che siamo sommersi di informazioni. Tutti, da troppe informazioni. Pensiamo solo all’email. Il vostro cronista utilizza da sempre solo i software “di serie” di casa Apple per una serie di motivi. Il primo è che sono ottimi; il secondo che così si possono testare fino in fondo le opportunità  dello stile di vita digitale ideato da Steve Jobs; il terzo è che, in questa fase di grandi trasformazioni, sono gli unici che garantiscono l’operatività  al 100% del tempo. Non c’è niente di peggio che non poter aggiornare il sistema operativo per paura che “rompa” qualche aggiunta particolare, qualche software “critico” come ad esempio il client di posta elettronica.

Ecco che arriva il problema però: le email e spotlight hanno una straordinaria integrazione dentro Mail.app. Funzionano che è un piacere, insieme. Talmente bene che uno è portato a interrompere una tradizione quasi decennale e a mettere in piedi tutta una struttura di cartelle “smart”, cioè basate su criteri di ricerca di spotlight. Il problema, però, è che non sono vere cartelle: la mail rimane là  dov’è originariamente, mentre quella che compare nelle smart folders è solo una sua “immagine”. La stessa cosa, se vogliamo, che succede nel Finder.

Perché archiviare, ci si chiede (soprattutto quelli più pigri tra noi, come il vostro cronista), con metodi e criteri complicati quando invece è possibile trovare tutto con un “colpo di spotlight”? Perché, a posteriori ci si rende conto, poi diventa un gran caos.

Chi scrive riceve qualche centinaio di email al giorno. Al netto dello spam e delle email con le informazioni “istituzionali2 delle varie liste e servizi di news (tutto per i lettori di Macity!), ci sono decine e decine di mail di lavoro al giorno. E rimangono tutte nelle loro inbox. Perché con le smart folder (a partire da quella che mostra le mail delle ultime 48 ore, su cui ci sono i lavori più urgenti, sino a quelle ad hoc per i singoli progetti complessi a più lunga scadenza) apparentemente non c’è più bisogno di spostarle.

Errore! Se non le si sposta, poi le caselle di posta crescono, crescono, sino a superare le 10 mila, 20 mila, persino 30 mila unità . E voi ben capite che con 30 mila email infilate dentro una singola casella non solo il concetto stesso di ordine evapora, ma la struttura del database che le tiene insieme entra in crisi per la pressione e il rischio di perdere la mail diventa molto serio.

Cosa dire allora? La soluzione sarebbe a) buttare via tutto quel che non serve; b) essere ordinati fin dal principio. Vediamo però che ci sono dei problemi: buttare via tutto non serve a niente ed è quasi un peccato. Con il costo dei sistemi di archiviazione che cala ogni giorno di più, vuol dire cancellare la propria storia. Anche Gmail, la posta elettronica di Google, è nata per rispondere proprio a questo quesito: perché buttare? Lo spazio adesso c’è. E il problema così è quello del modo di archiviare. In effetti, anche costruendo una ragnatela di filtri che spostino mail in entrata ed in uscita, usando spotlight e inventandosi criteri di archiviazione sempre più complessi, il consumo di tempo e di energie mentali è enorme. E il rischio di aver sbagliato criterio – vanificando così lavori che durano mesi se non anni – è molto forte.

Il problema, insomma, è che non c’è più un criterio per archiviare i messaggi di posta elettronica. Un problema che ha una spiegazione semplice: l’email è diventata varie cose contemporaneamente. E’ una sorta di “gazzettino quotidiano” di comunicazioni prefabbricate (mailin list, gruppi di discussione, report, informazioni sparpagliate, persino inviti ad eventi), un contenitore di conoscenza strategica importantissima (mail con allegati o senza con informazioni critiche, dati rilevanti, presentazioni, excel, doc, insomma, un sacco di roba che spediamo e riceviamo passando dall’email), di ricordi (conversazioni con gli amici, fotografie, filmatini, nell’email passano anche queste cose, a decine), scadenze (appuntamenti mandati o ricevuti via email su posti, luoghi, orari, date, numeri di telefono da fare), appunti e linee guida (brevi note o cose che sempre più spesso ci mandiamo a noi stessi o che riceviamo da altri), rubrica (avete mai pensato che soprattutto con le firme automatiche alla fine delle email noi in realtà  seppelliamo al di fuori della rubrica tonnellate di dati relativi a contatti di lavoro? come se buttassimo tutti i biglietti da visita che si possono raccogliere nel corso di una vita professionale in un unico sacco nero, dove poi non li ripescheremo mai più, probabilmente).

Avete capito qual è il problema? Che le applicazioni di base ci sono, nel Mac. Sono le iApps, che è un piacere usarle tra l’altro per quanto sono facili e intuitive. Sotto di loro, c’è uno strato comune di servizi – il Mac li chiama frameworks ma sono una serie di strati di middleware da un certo punto di vista – che permette di passare le info da una applicazione all’altra e di aprirsi a nuove applicazioni visto che i frameworks consentono anche di sfruttare le funzionalità  chiave dei singoli programmi attraverso le loro interfacce di programmazione (Api) e risorse. Come dire: faccio un altro software per la scrittura utilizzando le stesse funzionalità  e potenzialità  di TextEdit, solo che cambio l’interfaccia e il modo in cui ad esempio funziona all’interno del mio Mac. C’è anche questa grande risorsa che è la banca di meta-dati di spotlight che permette di raggiungere tutte le info indicizzate senza sforzo da qualsiasi applicazione, di Apple o di terze parti. Cosa manca?

Mancano quasi completamente le applicazioni per l’intelligenza. Quelle in grado di stabilire relazioni tra applicazioni sulla base di informazioni eterogenee. Qualcosa che consenta di legare tra di loro le info, cioè legarle a un contesto e in tempo reale (senza bisogno di aggiornare, esattamente come già  succede sia con spotlight che con il file system, per intenderci) producendo una cosa fondamentale: conoscenza.

Quello che abbiamo a disposizione, infatti, è una massa di dati strutturati in maniera tale da poterli utilizzare e manipolare: si chiamano informazioni. Quello che invece ci serve è “conoscenza”, cioè una serie di relazioni dinamiche in un contesto arbitrario. Questo è un tema sul quale stanno “impazzendo” ad esempio i grandi produttori di software per le imprese. A qualche risultato però le varie Ibm, Oracle, Sap, Sas e via dicendo sono giunte. Sarebbe l’ora che anche Apple – in grado di innovare in maniera straordinaria – si facesse carico del problema. E dicesse qualcosa di nuovo, prima che i cugini “ritardati” del Pc se ne vengano fuori con qualche stramba applicazione che cerca di fare quel che il Mac potrebbe ma non fa….

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