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Facebook vende agli inserzionisti le crisi adolescenziali dei suoi utenti

Quando non paghi, vuol dire che il prodotto sei tu. Lo sappiamo tutti, ma tendiamo a dimenticarlo troppo spesso. Vale per la pubblicità in televisione e vale ovviamente e soprattutto per i motori di ricerca e i social media come Facebook. Proprio quest’ultimo, come si apprende da un rapporto che è trapelato dall’ufficio australiano dell’azienda, secondo quanto riporta The Australian, e come abbiamo già scritto qui, è “colpevole” di vendere addirittura i suoi utenti più giovani, gli adolescenti (dai 14 anni in su) nel momento delle crisi psicologiche caratteristiche di quell’età, agli inserzionisti.

Secondo il rapporto, Facebook ha sviluppato un algoritmo capace di determinare, e fornire agli inserzionisti, informazioni sui “momenti nei quali giovani hanno bisogno di una iniezione di fiducia”. Le parole chiave degli stati emotivi degli adolescenti sono quelli raccolte dal motore di ricerca semantica impiegato dall’algoritmo: “inutile”, “insicuro”, “sconfitto”, “ansioso”, “ridicolo”, “senza scopo”, “stupido”, “soverchiato”, “stressato” e “un vero fallimento”. La capacità semantica dell’algoritmo permette di declinare in diversi contesti non solo le forme grammaticali di questi e altri termini, ma anche di usarli come ontologie per ricercare altre parole, espressioni e frasi che abbiamno significati riconducibili a quei termini base. E quindi “pizzicare” gli utenti adolescenti in crisi, per segnalarli agli investitori.

Anche altri stati d’animo sono importanti per gli inserzionisti. Il momento in cui giovani uomini e giovani donne vogliono “avere un bel look e più fiducia nel loro corpo” e “fare esercizio e perdere peso”.

 

Anche Instagram ovviamente fa parte del processo, dato che si tratta di una società completamente controllata da Facebook. E il social media delle foto quadrate viene impiegato per illustrare agli inserzionisti “come le persone rappresentano i momenti della loro vita da un punto di vista visivo, ad esempio i pasti”, oppure i vestiti, oppure le vacanze.

Ci sono molte e interessanti considerazioni che vengono raccolte nel breve rapporto di una quindicina di pagine, e che sarebbero perfette per uno studio (anonimizzato) di qualche grande facoltà di sociologia o pedagogia. Peccato però che Facebook abbia costruito questa macchina per spremere le emozioni dei giovani con la finalità del profitto. E, nonostante le smentite del social media di cui rendiamo conto nel nostro precedente articolo, il problema rimane assolutamente aperto, perché basato su una questione di fiducia verso Facebook.

Chiediamocelo pure: chi si fida che effettivamente “Facebook non offre strumenti per individuare le persone in base al loro stato emotivo. L’analisi effettuata da un ricercatore australiano ha lo scopo di «Aiutare il marketing a capire come si esprimono le persone su Facebook», come ha detto un suo portavoce. Sul serio? Ci crediamo? Abbiamo davvero così tanta fiducia in una azienda il cui modello di business è vendere l’attenzione dei propri utenti agli inserzionisti pubblicitari?

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