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Un computer di quasi trent’anni

In molti piccoli paesi come quello in cui vivo, al confine tra Marche e Romagna, c’è una attivissima “sezione” Avis, l’associazione dei donatori di sangue che si occupa di organizzare la raccolta del prezioso liquido e dei suoi derivati dagli volontari iscritti in una piccola area. Come in ogni sezione è necessario tener conto di molti dati, delle donazioni più recenti, delle condizioni di salute, eseguire richiami e inviti gestire le benemerenze e persino le attività  elettive per i consigli direttivi che vanno rinnovati periodicamente.

Oltre vent’anni anni fa l’Avis del mio paese decise di gestire tutta questa attività  attraverso un computer rivolgendosi a chi scrive e all’amico Roberto B., tra i primi in mezzo alle 5.000 anime che popolavano la frazione ad utilizzare un computer e a conoscerne le potenzialità : fu così che pensammo di utilizzare quello che ci sembrava il migliore compromesso tra prezzo e prestazioni sul mercato: un clone Apple costruito da Lemon, la ditta di famiglia dell’ex pilota di motociclismo Franco Uncini.

Già , perchè anche Apple ha avuto i suoi cloni non solo quelli “autorizzati” degli ultimi anni ’90 costruiti da Umax e Power Computing ma anche quelli di un’epoca da “corsari” di quasi venti anni prima in cui le dispute sulla proprietà  intellettuale del design delle schede madri non aveva ancora raggiunto le aule dei tribunali.
E così gli emuli di Steve Jobs e compagnia si organizzavano anche nei garage del Belpaese per portare l’informatica a “basso costo” presso i primi appassionati o i tecnici con un budget ridotto e con nomi di frutti di dimensioni analoghe a quelle della mela californiana: noi avevamo i limoni ma altri avevano le pesche o le arance e pure gli ananas più assonanti (pineapple in inglese).

Il Lemon era un clone di Apple II, il primo vero personal computer mai commercializzato e Roberto prima di passarlo all’Avis lo aveva utilizzato in casa per diverso tempo per gestire la sua attività  di commerciale, lo aveva attrezzato con un doppio lettore di floppy da 5 e 1/4 e aveva acquistato uno di quei programmi che avrebbero segnato la storia informatica di molti di noi: AppleWorks, una suite “integrata” di applicazioni per ufficio che rendeva facilissimo scambiare i dati dal word processor al database con l’uso di menu a discesa, finestre di accesso ai documenti, tutti realizzati non come sui Mac che cominciavano ad apparire in quei mesi ma “giocando” con l’interfaccia a caratteri Ascii mostrata sui monitor a fosfori verdi che ci facevano apparire ai primi soci della sezione come tanti marziani ipertecnologici.
AppleWorks sfruttava i 64k di memoria del Lemon-Apple e nelle successive versioni riusciva anche a gestire l’espasione a 128k: per gestire i 120 soci di allora con tutti i loro dati era sufficiente e divenne presto il cuore informatico dell’attività  della sezione.

Tanto tempo è passato da allora e l’Avis ha girato da qualche mese la boa dei ventisei anni di attività , il database dei soci ha superato i 500 nominativi e in tutto questo tempo molti operatori più o meno abili si sono avvicendati alla registrazione dei dati, a far partire quello strano dinosauro tecnologico inserendo i floppy morbidi al momento dell’accensione, a far partire il monitor dai colori marziani, a scorrere elenchi, preparare lettere di richiamo o di benemerenza con l’opzione di “fusione” tra database e programma di scrittura.

Il Lemon, stretto parente povero ma efficiente di quello altrettanto povero e geniale concepito nel garage di 30 anni fa, è ancora là  a fare il suo dovere, a sputacchiare elenchi dalla stampante centronics, a chiamare a raccolta i volontari del sangue ma anche a testimoniare che le idee più valide resistono anche all’ingiuria del tempo e che 30 anni fa non nasceva soltanto una azienda ma anche l’idea di rendere la tecnologia alla portata di tutti.

Alla fine eccomi qua, in questa piccola stanza che ospita il Lemon con duodisk, a pensare alla prima installazione, alle prove con le schede di espansione e il primo mouse seriale, a ricordare l’amico Roberto G. che lo manovrava dalla carozzella con le sue dita sottili, a scorrere i vecchi elenchi nei floppy di backup che riportano i nomi di amici che non rivedrò e mi ritorna in mente il verso di una quasi sconosciuta canzone di Battisti e Pannella che forse esprime più di ogni altra cosa l’anima che possiamo trovare anche in uno strambo insieme di plastiche, metallo e circuiti elettronici:
“Son le cose che pensano, e danno di te sentimento…”

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