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Il difficile mestiere del blogger diventa remunerativo

“E’ meraviglioso scrivere tutti i giorni”, dice uno dei blogger intervistati dal Wall Street Journal, la signora Halvorson. Divenuta capo-blogger, “editrice di contenuti”, evangelista, giornalista aziendale, supporter, la signora scrive quattro blog per Stonyfield, azienda che produce yogurt organici ed è di proprietà  di una controllata del gruppo Danone. Lo scopo è quello di raccogliere notizie utili e non dannose, di creare link, di fare dei post. In pratica: creare consenso intorno all’azienda madre, al brand, al prodotto.

E’ solo uno degli esempi di “corporate blog”, di quel che sta succedendo nel mondo della rete e che presto accadrà  anche da noi. Da un lato, l’attenzione all’immagine, dall’altra, mancando le regole e i vincoli della stampa tradizionale, “l’assalto” delle aziende ai blog che da molti lettori vengono reputati una fonte di informazione credibile allo scopo di creare consenso e informazione “positiva”.

Ma non c’è solo quello. Se è vero che bloggare (sono più di 1500 i blog aziendali degli impiegati di Microsoft) è anche una attività  che ha luogo all’interno dell’azienda, altre volte – si veda Jonathan Schwartz, capo scienziato di Sun – il blog è uno strumento per far parlare velocemente e in maniera informale il vertice dell’azienda verso l’esterno e anche l’interno. Un megafono dal tono suadente, un modo per esercitare il “soft-power” della seduzione anziché sistemi coercitivi o discorsi pubblici a senso unico.

In più, con i sistemi di micro-pubblicità , i mini banner e gli AdSense di Google, l’attività  di blogger popolari anche in Italia è produttrice di qualche piccolo utile e arrotondamento, una qualche sommetta di denaro che si aggiunge al sudato stipendio dell’attività  principale e dà  soddisfazione della passione di scrivere in rete. I casi di famosi giornalisti e scrittori che si sono “buttati” in rete risalgono all’inizio del fenomeno blog – tre anni fa, ma sembra già  una vita – ed hanno a che fare più che altro con la capacità  di creare immagine e consenso intorno alla “firma”, al giornalista stesso. Adesso è il signor Rossi, non la celebrità  della prima ora, quello che vuole una piccola bottega artigiana online in grado di produrre qualche piccolo utile. E’ lui che cerca di creare valore (per qualcun altro) e fare un piccolo fatturato (per sé).

Negli Usa si sprecano gli annunci di lavoro per assumere blogger, magari già  di successo oppure ancora in via di formazione, con stipendi base tra i più disparati ma comunque nella fascia dei 40-70 mila dollari. Quello che cercano le aziende viene rapidamente spiegato al Wall Street Journal da Paul Goodman, vicepresidente per l’eCommerce di una azienda che vende popcorn di qualità : “Cerchiamo persone brave ad esprimersi. Quello che scrivono non deve necessariamente essere perfetto. Ha però bisogno di essere discorsivo e deve trasferire i nostri sentimenti e le nostre passioni alla comunità “.

La rivoluzione sociale dei blog si sta quindi trasformando, almeno negli Stati Uniti, nella rivoluzione aziendale. Un passaggio del quale gli effetti si avvertiranno a breve anche nel nostro Paese, con tutta probabilità . Non ci sono i grandi discorsi teorici sulla fine del giornalismo convenzionale, sull’etica e sulla deontologia, sui dilemmi legali se giornalista è chi lavora per il grande giornale o anche chi ha creato un piccolo blog. No, la rivoluzione dei corporate-blog è pragmatica, di basso profilo ma di base estesissima e coinvolge centinaia se non migliaia di persone. E i suoi effetti saranno simili a quelli della vernice versata alla sorgente di un fiume: coloreranno le acque per tutto il corso, sino al mare.

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