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La battaglia dell’innovazione non conosce arresto

A San Francisco il portiere dell’hotel Grand Hyatt, che fa praticamente angolo con Union Square, si agitava sul marciapiedi nella sua divisa anni Trenta, grigia e con il cilindro. “Cosa vuole – diceva al cronista alla fine di settembre, neanche un mese fa – qui passano in tanti, per le conferenze e per fare business. Ma la tecnologia non è più come prima: adesso viene gente diversa”.

Il grande cambiamento, quello che doveva accadere dopo il botto della New Economy, forse è già  arrivato. Prima, un decennio di crescita misurata, sotto l’occhio delle prime società  “innovative” e dei grandi colossi in abito intero e cravatta scura. Poi, l’euforia delle nuove tecnologie, l’esplosione delle DotCom, l’impazzimento delle Borse. Quindi, il crollo, il terrorismo, la guerra, il petrolio, il dollaro ai minimi storici contro un Euro appena arrivato e già  tosto più del Marco tedesco. E adesso?

Fattori sottovalutati come la capacità  a costo marginale minimo di incrementare i sistemi di trasmissione agli estremi delle dorsali in fibra ottica, la pervasività  dei computer in tutte le loro forme, l’arrivo sulla scena della “borghesia del Pc”, quella composta dalla gente comune – non dagli appassionati a tutti i costi che cavalcano sempre l’onda della novità  – le connessioni wireless, l’email per tutti. La trasformazione ha cominciato a correre proprio quando si pensava che tutto si fosse fermato e che fossero rimasti sempre i soliti tipi sulla scena.

Sì, perché il dramma più grande della crisi della New Economy è stato proprio questo: ha lasciato solo giganti, in piedi su di un tappeto di macerie. Aol-Time-Warner, Ibm, Microsoft, Hewlett Packard (più Compaq e Dec), Apple, Amazon, eBay. Tutti pesi massimi, pezzi da novanta. Con altri pezzi da novanta dietro l’angolo, come ad esempio Google, una rinata Oracle, una Sun Microsystems in cerca del suo “iPod Moment”. Una serie di combattenti tenaci, tutta un’altra cosa rispetto alle armate brancaleone in possesso a malapena di una mezza idea, di un quarto di business plan, in cerca di rapida acquisizione.

Ma il panorama non è rimasto così, se non nella percezione e negli stereotipi dei giornalisti e di chi la tecnologia la vede un po’ da lontano perché non fa parte della sua vita. Così, quasi in sordina, con la complicità  dei soliti “angeli” del capitale di ventura, si sono cominciato a formare due schieramenti e una linea di vecchie glorie.

Da una parte, la prossima bolla: quelli che il software è tutto, ma solo se è sociale. Lo abbiamo già  scritto in passato: a un certo punto la produzione di software open source in maniera collaborativa si è trasformata in ventate di start-up con nient’altro in mano che tanta voglia di socializzare. Addirittura, di blog o poco più valutati milioni di dollari perché vengono letti. I capitalisti di ventura e quelli pronti alle acquisizioni a tutti i costi si sono messi a cercare i Corriere della Sera sociali, i brand “aperti”. Con il paradosso che le valutazioni miliardarie adesso vanno incontro a gruppi come quello di Wikipedia, che più che una rivoluzione del sapere è “un crocicchio di gente che ha un diploma in tasca, tempo libero, una connessione alla rete e tanta voglia di socialismo reale del sapere” (come ha scritto un commentatore indiano alcun mesi fa), piuttosto che a quelli che producono tecnologie. Un po’ un paradosso, visto che non si parla di marketing ma di mercato dell’innovazione tecnologica. L’innovazione sociale è forse un’altra cosa. In questo settore trovare le schiere più popolose, quelle composte da torme di “softwaristi del terzo settore” e poco più.

Dall’altra, i silenziosi, quelli che sviluppano tecnologie e non fanno molto per farlo sapere. Non vanno neanche tanto di moda, perché se non sono Open Source non piacciono. Eppure, BitTorrent (che è una delle rivoluzioni tecnologiche e di conseguenza sociali di oggi) è “closed source” e come lui tanti altri. Producono tecnologie, queste tecnologie vanno come tasselli a inserirsi in posti ben determinati e spesso angolari rispetto alla struttura del mercato, ma pochi ne parlano. Su di loro in realtà  poggia un terzo buono dell’innovazione che stiamo vedendo accadere negli ultimi 18 mesi e che sta cambiando in maniera esponenziale il panorama. Più di quanto non fosse accaduto prima.

Infine, la schiera. Composta da due fila. Quelli che sono grandi e innovano. Quelli che sono grandi e sono disperati perché non innovano. I primi non hanno neanche tempo per respirare: viaggiano alla velocità  della luce, tirano fuori un prodotto via l’altro perché l’attuale fase del mercato è diventata come la Formula Uno del turbo negli anni Novanta: tanto e tutto in una volta. Google e Apple guidano questa schiera. Non passa più un mese senza che ci siano prodotti nuovi, non passa una settimana senza che ci siano annunci nuovi. Uno via l’altro, con un ritmo infernale, per lasciare dietro il vuoto. Altro paragone corsaiolo: come Valentino Rossi. Cambiano cavallo e vincono, doppiando il secondo arrivato, tirando per tutta la gara senza fermarsi e senza sbagliare.

La seconda fila della schiera, che in altri tempi avrebbe vivacchiato benissimo, adesso sta entrando in crisi. E qui c’è il vero problema, perché dentro ci sono quelli veramente grossi: Microsoft, Hp, Oracle, Sun Microsystems e, in qualche modo, in fondo alla scala ancora avvolto nella penombra, il colosso Ibm. Per loro la vita è diventata impossibile. Anche per quelli piccoli ma che un tempo sarebbero diventati grandi. Aziende come Research InMotion o Palm, per esempio, che di prodotti e idee ne stanno tirando fuori, in realtà  sono in crisi nera perché non riescono a reggere il passo. Non capitalizzano lo sforzo che un tempo le avrebbe scaraventate nell’empireo di un monopolio quasi assoluto del loro settore.

Il paradosso in questo momento si riassume in un concetto: più accelerano le aziende-guida dei settori che innovano, più arrivare secondi o buoni ultimi non fa differenza. Un altro esempio: Microsoft sta per lanciare una salva di prodotti dopo due anni di attendismo. Sistemi operativi, pacchetti di produttività , soluzioni aziendali e per i singoli, database, motori di ricerca. Da Redmond hanno annunciato l’ira di dio per i prossimi mesi.

Ma intanto, il mercato ha imparato a viaggiare ad altre velocità  e tanti annunci di cose che ancora non sono arrivate fanno solo montare la frustrazione: importa eseguire oggi e domani e dopo-domani, marcando ogni passo, senza fare annunci a medio periodo, perché sennò si immagina che dopo questo non ci sarà  altro per mesi. E questo il mercato non lo vuole. Allora, come Google e come Apple, che rovesciano ogni quindici giorni novità  su novità , senza sbagliare il colpo, i ritmi del mercato sono cambiati. E la contraddizione, cioè la perdita di aderenza in gara dell’altra metà  della schiera dei grandi, rischia di provocare sbandamento e crisi. Che, unita a quella di settori in crescita che poggiano su piedi di argilla come quello del software sociale, rischiano di portare a un nuovo crash. Tutto questo lo dice, ragionando con calma nel bar del Grand Hyatt, anche il portiere, in pausa per mezz’ora. Poi, ritorno in strada a tastare il polso della capitale della Silicon Valley. Il cambiamento per lui è già  arrivato.

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