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Le storie della New Economy: i grandi fallimenti delle DotCom – Prima parte

Sono passati dieci anni esatti dalla quotazione di Netascape. E’ stato l’evento simbolico che gli storici dell’economia hanno scelto per marcare l’inizio della “bolla speculativa” che ha caratterizzato quella strana, euforica, folle e velocissima cosa che veniva chiamata la New Economy. Il momento di massima ubriacatura dell’economia digitale, in cui i soldi sembravano prodotti dal niente e addirittura in cui molti arrivarono a sostenere che era finita per sempre “l’economia della scarsità ” e che il valore sarebbe stato generato in maniera completamente diversa. Non è andata così, ma per cinque-sei anni negli Stati Uniti e nel resto del mondo è successo di tutto.

La fine della New Economy, poi, coincide cronologicamente con l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001. Ma non è stato quel fattore a provocare un “ritorno alla realtà “. La crisi già  c’era e le DotCom, le cosiddette start-up dell’era digitale, che avevano entusiasmato uno o due anni prima (trasformando studenti neolaureati in miliardari di stock-options grazie ai soldi dei capitali di ventura e alle premature quotazioni in Borsa), chiudevano e soprattutto cadevano come mosche.

Prendiamo lo spunto da una lista pubblicata da CNet per raccontare dieci brevi storie di ordinario fallimento negli Usa, in una sorta di Spoon River postmoderno. Quasi tutti i nomi che leggerete qui sotto non sono mai arrivati in Italia o comunque non sono mai andati al di fuori degli Stati Uniti. Eppure, sono loro che hanno costruito – e poi distrutto – il mito di una economia digitale che avrebbe dovuto rivoluzionare il mondo. La rivoluzione forse sta arrivando adesso, ma con un altro passo e con altri obiettivi, complementari e non alternativi.

1) Webvan (1999-2001)

Le migliori idee non sempre riescono a funzionare. Soprattutto se si ha la presunzione di voler crescere troppo in fretta. Ad esempio Webvan aveva avuto un’idea semplice e sicura: costruire un negozio virtuale per le consegne a domicilio, sia alimentari che prodotti per la casa, nella migliore tradizione dei Grocery Store. Partito ovviamente da San Francisco, la capitale della New Economy oltre che della Silicon Valley, in 18 mesi aveva raccolto 375 milioni di dollari attraverso la quotazione in Borsa. E l’ambizione di espandersi da subito in otto città  americane, programmando un ulteriore allargamento a 26. Per fare questo, ovviamente, serviva un’ottima infrastruttura tecnologica, che Webvan non si era fatta mancare: un miliardo di dollari di shopping tecnologico, “coperto” dal valore post-quotazione: 1,2 miliardi di dollari, pari a 30 dollari ad azione per una azienda che non aveva mai neanche lontanamente sentito parlare di utili nei suoi bilanci. L’errore fu crescere spendendo senza prestare attenzione ai margini, che nella grande distribuzione fanno la differenza tra il successo e il fallimento totale. Questa seconda opzione travolse Webvan nel lugilo 2001, creando duemila disoccupati e una montagna di debiti inevasi e inesigibili.

2) Pets.com (2000)

Pensavano che bastasse osare. Che l’immagine fosse tutto. Che fosse necessario azzeccare la campagna di comunicazione giusta, e nient’altro. Come aveva fatto ad esempio Apple nel 1984 con lo spot “Big Brother” al Super Bowl, il principale evento sportivo trasmesso dalle tivù americane. Stessa ambizione di Apple, insomma, ma sotto lo spot, niente. Il negozio per animali domestici online, che con le campagne aggressive di comunicazione aveva reso la sua mascotte popolarissima, non riuscì comunque a fare un’altra, fondamentale cosa: convincere i clienti a comprare online quel che serve per mantenere il proprio animale domestico (cibo, coperte, cucce, gabbie, voliere, guinzagli e tutto il resto). Forse perché se si ha bisogno della lettiera per gatti, non si può aspettare una settimana per vedersela consegnare a casa dal corriere. Inoltre, per essere competitivi, i prezzi devono essere bassi, bassissimi. E i margini per la lettiera dei gatti e sui guinzagli non sono enormi. Pets.com spendeva tantissimo in comunicazione, vendeva sottocosto e in nove mesi – dalla quotazione del febbraio 2000 che aveva rastrellato 82.5 milioni di dollari al collasso finale – chiuse i battenti.

3) Kozmo.com (1998-2001)

Consegne a domicilio. Gratuite. Idea geniale ed utilissima. Peccato però che un Dvd e un pacchetto di patatine consegnate senza costi supplementari siano come la goccia che scava la pietra dei bilanci. Esponendo un rosso profondo. L’idea di Kozmo.com era proprio questa: fornire un servizio tutto cittadino di consegne a domicilio generaliste: una via di mezzo tra i Pony Express e Amazon. Senza nessun costo di spedizione, dato che i prezzi di consegna dovevano essere coperti dal margine sui beni. Si aspettavano montagne di consegne, ottennero montagne di debiti: mai quotati in Borsa avevano comunque in cassa almeno 280 milioni di dollari dai capitali di ventura e altri 150 provenienti da un accordo con Starbucks. Anche la più popolare catena americana di frappuccini e latte macchiato si era illusa che il business potesse arrivare consegnando a domicilio due tazzine di Espresso short. Mille e cento disoccupati e alcuni milioni di dollari di debiti dopo, si è capito che non avrebbe funzionato. Era il marzo 2001.

4) Flooz.com (1998-2001)

Da un lato c’è Paypal, il sistema per i pagamenti online. Ottima idea, business abbastanza buono e soprattutto cruciale per eBay, la più grande casa d’aste online. Che infatti si è comprata l’azienda mettendo così “al sicuro” le sorti del suo sistema di pagamento. Dall’altro, Flooz.com e Beenz.com. L’idea di entrambe era quella di offrire una valuta virtuale, online, per fare shopping. Praticamente, come le Gift card dei negozi. Accordi con Tower Records, Barnes & Noble, Restoration Hardware. Una front-man (anzi, front-woman) come Whoopy Goldberg, la persona adatta a consolidare l’immagine dell’azienda. Peccato però che nessuno volesse usare le carte regalo di un soggetto terzo, che l’idea della valuta virtuale nel paese col più grande numero di carte di credito al mondo non avesse praticamente senso e che fosse pure implementata male. Flooz.com chiuse i battenti nell’agosto del 2001, con una bancarotta silenziosa ma micidiale. Non era mai diventata abbastanza grande da far rumore neanche quando è caduta…

Vai alla seconda parte.

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