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Quella ragazza bionda che tiene insieme la nuova Hewlett-Packard

A Madrid, una settimana fa, durante il Software Universe 2004, i dirigenti mondiali ed europei di Hp avevano una sola domanda in testa: come mai se l’azienda sta andando bene il titolo in Borsa non cresce come dovrebbe? Come mai ancora ci si chiede cosa ne sarà  di Hp, la società  fondata nel 1939 da due hacker ante litteram (Bill Hewlett e Dave Packard, due studenti laureatisi nel 1934 a Stanford) in una Silicon Valley che ancora era tutto frutteti e prati in fiore? Come mai, insomma, nessuno si è accorto che ce l’hanno fatta?

Hanno ragione o forse no, i dirigenti dell’azienda che meno di tre anni fa sembrerebbe aver smentito la favola del serpente, riuscendo a inghiottire un boccone (Compaq e al suo interno Digital) grosso quanto lei. Hanno ragione o forse no, dipende da quello che si pensa possa essere definito “successo”, cos’è “vittoria” e come ci si arriva.

L’azienda ha cominciato, sia nell’utile che nei margini operativi, a “performare bene”: vale a dire che si sta avvicinando rapidamente ai livelli dell’ultimo trimestre del 2001, quello pre fusione. Se infatti si somma quanto realizzavano Hp e Compaq da una parte e si guarda come va invece la nuova Hp adesso, bisogna riconoscere che l’allineamento è quasi completo. Ma non simmetrico.

Alcune divisioni stanno andando meglio di prima, altre no, e per questo si è parlato di una eventuale suddivisione simile a quella che si è consumata in casa Ibm in queste ore. Vendere quel che non va bene, insomma, e potenziare quel che cammina già  sulle sue gambe. Ma la cosa è in conflitto con la visione del business della signora Fiorina, come vedremo tra un attimo.

Parliamo di quel che non va: sotto la pressione di analisti – soprattutto Steven Milunovich di Merrill Lynch – che chiedevano a gran voce da tempo risposte concrete, per tre volte almeno Fiorina (è il cognome, il nome di battesimo è Carlton, abbreviato in Carly) ha messo sul tavolo del consiglio di amministrazione l’ipotesi. Per distruggerla completamente e dimostrare che si va meglio così come si sta facendo.

L’idea interna ad Hp era quella di dividere le due grandi aree, quella business e quella consumer, cioè i prodotti e i servizi per la clientela aziendale e quelli per la clientela “normale” dei consumatori. Sono tipologie di prodotti molto differenti, ed è in sostanza su questo che Ibm ha deciso di mollare: vendendo la divisione che produce i personal computer vuol dire che adesso Big Blue si concentra su quello che ritiene sia veramente il suo core business. Cioè, prodotti per le imprese, servizi, consulenza, ricerca, supercomputer, microprocessori e via dicendo.

Ma qual è allora la visione di Calry Fiorina? Perché l’azienda, che ha patito tutto quel che poteva patire in un processo di transizione che a molti (soprattutto all’interno dell’azienda) è parso un vero e proprio bagno di sangue, sta invece nei fatti dando ragione alle idee, alla visione e alla capacità  di leadership di una gentile signora bionda?

Le strategie di Hp sono di due tipi. Legate all’innovazione tecnologica, dove l’azienda ha continuamente perseguito una politica di acquisizioni strategiche (acquisizioni di piccole società  in possesso di idee innovative, e non di grosse società  “bollite” con molti clienti da sommare a quelli del proprio portafogli) e legate alla corsa del mercato.

Da questo secondo punto di vista, Fiorina ha fatto partire con un ordine che si è rivelato sufficientemente azzeccato quei business strategici (divisioni stampanti, personal computer, server, software per server e reti, storage) per rintuzzare gli attacchi dei competitor da un lato e conquistare nuove fasce di mercato dall’altro.

Il lavoro è stato complesso e ha in effetti lasciato sul campo parecchi cadaveri: tagli (soprattutto tra le fila degli ex Compaq), prodotti gettati nel dimenticatoio, ritardi nell’esecuzione di programmi che avevano comunque la propria importanza. Un esempio? Hp poteva, come Dell e altri, entrare nell’arena dei prodotti consumer del tipo iPod, ma ha scelto un accordo con Apple. Lì è stato buon gioco supplire con la fantasia alla mancanza di focalizzazione nello sviluppo di un nuovo prodotto a forte rischio di insuccesso. Il problema è che non è neanche detto che l’iPod targato Hp stia andando bene. Dati non ce ne sono ma la sensazione non è positiva.

La visione complessiva di Carly Fiorina, in sintesi estrema, è diventata interessante. Ha capito che il mercato, sia consumer che digitale, è non solo legato insieme ma proprio adesso è anche in una fase di inusitatamente rapida evoluzione (più del solito), per cui entrare adesso in segmenti nei quali non si è mai stati non vuol dire necessariamente essere svantaggiati. Anzi, spesso vuol dire essere liberi dagli impedimenti delle scelte passate. E poi, Calry Fiorina ha in mente una parola che non esiste ancora nei vocabolari ma che i Ceo più visionari – Steve Jobs, Calry Fiorina, quelli di Sun, Oracle e Sony – disegnano nell’aria durante le riunioni dei consigli di amministrazione. Quel mix tra convergenza, integrazione, interdipendenza, virtualizzazione e iteroperabilità  delle funzioni. Un blob stano, informe, una sorta di visione mistica che molti di loro intuiscono ma declinano in maniera differente.

Quello che Hp ha capito è – secondo Carly Fiorina – che Hp ha la possibilità  di diventare una specie di Ibm del futuro. Molto più di Dell, che è legata non solo per le tipologie di prodotti che realizza ma anche per la potenza e i limiti intrinseci della sua formula principale di vendita. Il futuro secondo Hp è quello di una azienda con una gamma completa di prodotti e servizi, con la copertura dinamica dei settori in espansione, con iniezioni quotidiane di nuove tecnologie dall’esterno sino a quando dall’interno il flusso dell’innovazione non comincerà  a scorrere in maniera costante. Un’azienda, insomma, che sogna grandi cose e si attiva per realizzarle, perché si sente un bambino nel corpo di un gigante e vuole far crescere la sua mente sino a che non dominerà  pienamente tutte le sue capacità .

La differenza con Ibm è la minore attenzione al settore dell’Open Source, la mancanza del possesso delle tecnologie di base (Hp acquista le componenti tecnologiche per tutti i suoi principali prodotti: dalle stampanti ai server) e una più forte predisposizione verso il mercato consumer. Quello che Hp ha capito, in sostanza, è che ha abbastanza frecce al suo arco per fare tutto da sola: proporre soluzioni consumer o business in cui tutti i mattoncini (dal computer alla stampante, dal software di base all’applicazione più ricercata per l’ufficio, dalla potenza di calcolo allo storage) sono prodotte da lei. Il piano di Fiorina è proseguire su questa strada, producendo o comprando quello che manca e proponendosi come attore “completo” sul mercato della tecnologia. Sino a questo momento la scommessa sta pagando, anche se le Borse non valorizzano il titolo come Hp ritiene che si dovrebbe. Ma questo è un altro problema, forse di comunicazione più che di esecuzione. Manca un leader che sappia anche trascinare o quantomeno un posizionamento chiaro e univoco. Ma non è detto che Carly Fiorina non raggiunga anche questo risultato…

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