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Tecnologia alle soglie della schiavitù: la storia di Bibek Dhong

Dietro alla fotocamera di iPhone 5, ma anche di tanti altri prodotti hi-tech, c’è un viaggio della speranza, costellato da aspirazioni di una vita migliore, la volontà di rendere la propria esistenza più dignitosa e dare un futuro alla propria famiglia, che si scontra con la durezza del mondo del lavoro globalizzato, un caporalato privo di scrupoli, un lavoro che è solo ad un passo dalla schiavitù e conduce ad una esistenza fatta di incertezze e miserie più grandi di quelle vissute all’inizio del viaggio.

Tutto questo viene descritto in un affascinante, approfondito, duro nei contenuti ma estremamente interessante, articolo di Businessweek che offre uno spaccato di quel che accade dietro le quinte del palco che conduce in scena i luccicanti dispositivi elettronici che usiamo ogni giorno, quelli di Apple, ma anche quelli di praticamente tutti i protagonisti del mondo dell’industria ad elevata tecnologia come Ford Motor o Lockheed Martin che si affidano a fabbriche del cosiddetto mondo in via di sviluppo per l’assemblaggio e la produzione delle componenti.

Il servizio, scritto da Cam Simpson, parte dalla considerazione che se anche se tutti, i giornali, i rappresentanti delle associazioni di tutela dei lavoratori e la stessa Apple, hanno puntato i loro obbiettivi sulla Cina come uno dei paesi su cui fare pressione per condizioni di impiego più giuste e umane, ci sono tanti altri paesi dove chi opera per costruire componenti, vive situazioni al limite (e forse oltre) quelle del sopruso. E Businessweek lo dimostra con la storia di Bibek Dhong, un nepalese reclutato per costruire, appunto, le fotocamere di iPhone 5.

La sua vicenda è cominciata nel giorno in cui Flextronics, uno dei dieci più grandi fornitori di Apple, ha ricevuto l’incarico di assemblare la componente. Apple ad inizio settembre del 2012 ha assegnato all’azienda che ha un grande numero di impianti, tra cui uno a Bukit Raja Malesia, una importante commessa per la quale c’era necessità di 1500 dipendenti. Flextronics ha dato mandato alle agenzie di reclutamento di accelerare al massimo i tempi così le agenzie si sono rivolte a dei subagenti ai quali è stato detto che avevano 24 ore di tempo per portare in Malesia i primi dipendenti.

Si è innestata, questa volta come altre, una perversa catena di subcommesse che ha portato la ricerca di persone disponibili nei paesi più poveri e disperati del subcontinente Indiano e in Indocina; una di queste sub-sub-sub agenzie ha contattato singoli reclutatori, che potremmo equiparare, secondo il gergo italiano di qualche decennio fa, a dei caporali che hanno avuto buon gioco ad arrivare alle pendici dell’Himalaya in ambienti rurali dove il lavoro è saltuario e mal pagato. Le persone che vivono i questi villaggi sono disposte alle condizioni più dure di impiego per dare un futuro alle proprie famiglie e anche ad emigrare, come nel caso di Bibek Dhong, che lavorava senza regolarità presso una piccola azienda casearia per mantenere la famiglia. La disperazione delle persone come Bibek è ben nota ai caporali che sfruttano il bisogno per arricchirsi,contando su miseria e fame, chiedendo un pagamento dai lavoratori.

Questa pratica non è illegale ed è nota anche ai committenti, Apple compresa, che però impone condizioni formalmente severe per accettare fornitori che la usano: il pagamento non deve essere pari a più di un mese di stipendio e non ci devono essere costrizioni come quelle verificate in alcuni casi in cui i passaporti dei lavoratori vengono sequestrati dalle agenzie dei paesi di destinazione, dove si svolgerà il lavoro, fino a quando il debito non è stato pagato. Ma questa disposizione si perde nella rete di subagenti che si inabissa nei vicoli di Kathmandu o nei villaggi perduti tra le risaie di Myanmar e del Laos.

Dhong ha sperimentato sulla sua pelle che cosa questo significa.

Chiamato al telefono da un reclutatore, il giovane nepalese ha dovuto pagare 250 dollari per mettersi in fila per una intervista; successivamente è stato chiamato da una agenzia internazionale che ha ritirato il suo passaporto ordinandogli di essere all’aeroporto entro tre ore con in tasca altri 500 dollari, sei mesi dello stipendio che avrebbe percepito in Malesia. Non sapendo come procurarsi tutto quel denaro, Dhong e sua moglie hanno dovuto frettolosamente chiedere un prestito offrendo garanzie pari solo a 350 dollari; messo tutto quel che gli serviva in uno zaino, salutata la moglie e la figlia, il futuro dipendente di Flextronics, è partito per Kathmandu.

Arrivato all’aeroporto un terzo agente gli ha chiesto altri 400$, obbligandolo a firmare una nota di debito. Prima ancora di cominciare a lavorare, Dheng aveva quindi quasi mille dollari tra quel che aveva versato e quel che devevai ai suoi creditori, l’equivalente di un anno di lavoro nello stabilimento di a Bukit Raja e l’obbligo di non dire a nessuno di quel che era accaduto e come era accaduto, in caso contrario sarebbe stato punito e licenziato, almeno così aveva appreso dall’esercito di caporali che aveva dovuto affrontare, ma almeno aveva un lavoro anche se con turni di 12 ore, dalle 7 alle 19, per 178 dollari al mese.

Dhong aveva l’incarico di verificare le tolleranze della fotocamera di iPhone 5 e di respingere quelle sotto le specifiche di Apple. Schiller aveva detto, con enfasi, alla presentazione di iPhone 5 che la fotocamera era tanto precisa e ben assemblata da richiedere tolleranze di micron, tolleranze che l’impianto di Flextronics non era in grado di rispettare se è vero che a novembre venivano ancora respinte 7 componenti su 10, un numero inaccettabile per Apple. Di qui la decisione di togliere la commessa a Flextronics e quella di Flextronics  di togliere il lavoro ai nepalesi, vietnamiti ed indonesiani che lavoravano nella catena di produzione.

Il licenziamento sarebbe stato ricompensato con un pagamento fino a gennaio del 2013 più un mese, ha comunicato un responsabile dell’azienda ai dipendenti riuniti nel cortile del dormitorio dove erano ospitati. Ma per tornare a casa c’era bisogno del passaporto che era nelle mani di non precisati agenti di Flextronics che senza spiegazioni non li hanno consegnati (se non in piccolo numero), forse su mandato di qualcuno che voleva ancora recuperare il denaro che sperava di avere dai dipendenti ormai licenziati. Il risultato è stato che i visti sono scaduti trasformando in immigrati illegali gli ormai ex lavoratori della catena di produzione della fotocamera di iPhone 5.

impianto produzione iphone

I giorni hanno cominciato a trascorrere nell’incertezza del giorno del ritorno a casa, dell’ottenimento di un nuovo permesso di soggiorno o di un nuovo lavoro, ma senza soldi mancava il cibo e ogni strumento di sussistenza. A fine febbraio, con i soldi e il cibo, se n’ andata anche la speranza ed è scoppiata una rivolta. È stato a questo punto che la polizia ha ordinato a Flextronics di intervenire e a due mesi dalla perdita del lavoro, Dhong è tornato a casa dove però lo attendevano i creditori e un altro lavoro sottopagato. Ora guadagna 90 dollari al mese, ma deve pagare 300 dollari di interessi l’anno ai creditori della filiera del caporalato; un terzo del suo reddito annuale finisce così a chi gli ha procurato un lavoro che ora non ha più e che non ha quasi mai avuto.

In seguito alla inchiesta, Flextronics ha promesso una indagine e un rimborso a tutti coloro che hanno dovuto subire i soprusi dei subagenti ed Apple ha manifestato la volontà di attuare le necessarie verifiche: «siamo stati i primi – ha detto Chris Gaither un portavoce dell’azienda – a obbligare le agenzie a rimborsare i dipendenti che hanno subito eccessive richieste economiche. Abbiamo anche disposto un severo codice di condotta che prevede ora che i nostri fornitori svolgano direttamente le interviste di assunzione. Anche se lo stabilimento di Flextronics al centro della vicenda non è più tra i nostri fornitori, ci impegneremo in maniera meticolosa perché quel che abbiamo stabilito, sia rispettato».

In pratica Dhong ha la speranza di non dover pagare tutta la cifra che gli viene chiesta, ma solo il giusto, solo che quel che Apple ritiene giusto è parametrato su tre anni di impiego; Dhong ha lavorato solo due mesi e quindi ora dovrebbe pagare la metà di quello che ha guadagnato nella sua permanenza in Malesia; così la sua unica prospettiva ora è quella di farsi prestare altro denaro per trovare un nuovo lavoro all’estero e cominciare un nuovo viaggio della speranza e accettare che anche questa volta potrebbe terminare in una tragedia umana.

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