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Grazie alla tecnologia l’era della solitudine è finita per sempre, o forse no

La solitudine libera la creatività, rende più produttivi e dà libero sfogo alle idee. Non vuol dire essere solitari o alienati: semplicemente essere capaci di stare con se stessi per dei periodi di tempo abbastanza lunghi (un pomeriggio? Una giornata? Un fine settimana?). Tuttavia, per molti stare soli è difficile, è causa di ansia o sofferenza. Porta a depressione o vero dolore. Allora ci distraiamo, mangiamo, ci abbandoniamo a noi stessi.

Il problema è che la noia, che è uno dei due esercizi nel saper stare da soli (l’altro è prendersi cura di se stessi anche quando non c’è nessuno, cominciando con lavarsi, vestirsi e mangiare in maniera educata anche con la casa vuota) nella nostra epoca è considerata il grande nemico. Non necessariamente per motivi commerciali. Anche solo la retorica dietro la rete che unifica le menti e crea le folle intelligenti, che crea valori e contenuti, socialità e mette assieme persone di tutto il mondo, ha il non secondario effetto di azzerare la capacità di stare da soli e, indirettamente, mettere in crisi anche i capisaldi della nostra identità. È difficile essere psicologicamente centrati se ci si trova costantemente fuori da noi, sempre stretti in relazioni con altri.

Vediamo questo percorso attraverso un paio di idee.

Telefoni da guardare

La prima è un segnale che viene da lontano. Gli scrittori di fantascienza, anche i più moderni fino agli anni Ottanta, non avevano mai pensato agli smartphone. Star Trek aveva i comunicatori, i tablet e i tricorder, ma nessuno aveva pensato di mescolarli in un unico apparecchio tascabile. Al limite, a essere smart era la spilla con il logo della Federazione per le serie più recenti. Un oggetto che ha un valore simbolico e di appartenenza certamente maggiore che non un iPhone, però usi meno pratici (a parte fare da localizzatore per il teletrasporto, ovviamente).

Un giornalista molto intelligente di una generazione ormai scomparsa, cioè Howard Rheingold, ha scritto un libro intitolato “Perché la rete ci rende intelligenti” nel quale racconta un aneddoto interessante. Recatosi a Tokyo nei primissimi anni duemila per lavoro notava che in pausa pranzo attraverso le vetrine dei bar e tavole calde centinaia di giovani impiegati mangiavano da soli, il naso piegato in un apparecchio che era simile ai nostri Nokia 3310 e Motorola 8700 ma sostanzialmente diversi: grandi schermi con contenuti. I telefonini, apparecchi che per noi erano pensati solo per parlare (e quindi dovevano essere alzati e avvicinati alla testa) nel 2002 erano usati per guardare e comunicare testualmente.

Sembrava un altro caso di “effetto Galapagos”, il termine che gli economisti usano per descrivere situazioni in cui l’evoluzione di un prodotto segue un sentiero diverso in una specifica area geografica rispetto al resto del mondo (come le tartarughe delle isole eponime) e invece è presto rientrato tutto nella norma. Adesso è chiaro che la tendenza sarebbe diventata presto planetaria.

Guardare il telefono era una cosa incredibile, ma è successa.

L’era della solitudine è finita per sempre

La mossa di Mark

Quando è nato, Facebook era un sito per gli studenti ed ex studenti di Harvard. Avete tutti visto il film. Il libro delle facce, che poi sarebbe l’annuario con i volti di tutti i compagni di scuola (in Italia non si usa, negli Stati Uniti è un classico) è poi diventato planetario. Ma era una cosa solo web. E sul web continuava ad aggiungere funzioni: aveva ad esempio il maggior numero di sviluppi Flash per i giochini interattivi del resto di internet.

Poi, Zuckerberg ha visto l’iPhone, ha portato avanti infinite passeggiate con Steve Jobs, che gli faceva in qualche modo da mentore, e alla fine ha capito che doveva infilarsi nel telefono. Cioè trasformare l’esperienza del sito web in quella di una app vera e propria. Non solo perché il telefonino sarebbe diventato l’apparecchio del futuro, ma anche perché tutto quello che serviva a rendere più pervasiva l’esperienza d’uso di un social era basato su informazioni reperibili solo su telefonino: scattare una foto e caricarla direttamente in un social, vedere una notifica di un messaggio o di post in tempo reale anche quando non sei connesso direttamente al sito, caricare la propria posizione e cercare post e informazioni attorno a dove ti trovi in un determinato momento. Gli apparecchi post-Pc stavano non solo inghiottendo il Pc ma anche ridefinendo cosa si poteva fare, come e quando.

L’intuizione ha reso Facebook quel colosso che è oggi ma è la stessa anche per altri canali come Twitter, TikTok e ovviamente i due fratelli minori di Facebook, cioè WhatsApp e Instagram. Gli altri “non mobili”, come le piattaforme tradizionali di blog oppure siti come Tumblr o Flickr, ci hanno praticamente rimesso le penne.

Cosa ne pensa William

In un talk di un po’ di tempo fa il famoso scrittore di fantascienza William Gibson, il padre del movimento cyberpunk nonché il creatore del termine “cyberspazio” tra le altre cose, approfondisce un discorso molto interessante. Ricorda infatti un periodo in cui si è recato a Londra in un anno imprecisato, e che definisce l’anno in cui è finita la solitudine.

Nell’intervista del 2014 al Chicago Humanities Festival] Gibson spiega (al minuto 7:09) che in una occasione, sulla banchina di Kensington aspettando di salire sul treno, aveva visto persone attorno a se isolate, sole, senza collegamenti. Qualcuna leggeva, qualcun’altra guardava davanti a se, persa nelle proprie fantasticherie. Un mese dopo, tornato a Londra e di nuovo sulla stessa banchina, le persone erano sempre apparentemente isolate ma in realtà tutte piegate in due sul telefonino, costantemente connesse. In relazione con una matrice grande come il pianeta, che ti fa vedere in tempo reale quello che sta vedendo e fotografando qualcuno in un’altra città o dall’altro lato del pianeta.

L’era della solitudine è finita per sempre
Foto: Adrian Swancar – Unsplash

Cosa resta della solitudine

Al di là delle considerazioni sociologiche o anche clinico-psicologiche, è evidente che c’è stato un cambiamento radicale che prima non era mai avvenuto da quando esiste l’homo sapiens e l’homo faber in particolare. Neanche con l’invenzione della scrittura e quindi della lettura. È la fine della solitudine.

Fette sempre più grandi dell’umanità, man mano che le tecnologie mobili diventano pervasive su tutto il pianeta (oggi gli smartphone sono nelle mani dell’84% della popolazione mondiale) si collegano e diventano “non-sole”. Abbiamo tutti una vita relazionale, più o meno sana, che però è fatta in teoria di pieni e di vuoti, di momenti in cui scarichiamo le nostre energie nelle relazioni con gli altri e nei momenti in cui siamo da soli e le ricarichiamo. Questo per i caratteri di tipo introverso, ma al contrario vale anche per quelli più estroversi. Ed è vero che l’alternanza di questi momenti di vuoto e di pieno sono fondamentali al benessere mentale.

Non tanto e non soltanto perché si crea un accumulo di relazioni continue a cui non si alternano mai momenti di silenzio. Questo porta a fatica soprattutto quelli più anziani e “mentalmente formati” tra noi. Cioè il cui cervello non sta più cablando per la prima volta la percezione del mondo e del proprio monologo interiore. Ma questa fatica funziona anche perché la mente dei più giovani, soprattutto di quelli che sono nati negli ultimissimi anni, non ha ancora fatto queste “cablature”, non si è finita di formare e si trova a crescere in un ambiente saturato di relazioni e di rumore, di vicinanza costante con gli altri.

Stiamo allevando una generazione di Borg, che soffrono profondamente la solitudine (nonostante si sappia che questa in realtà fa bene) essendo abituati ad essere sempre connessi con l’alveare e la regina madre. Una disconnessione dalla rete porta allo sviluppo di una serie di comportamenti e alla generazione di stress a cui la mente è impreparata perché non l’ha mai conosciuto prima. Non ce ne rendiamo conto, noi che siamo cresciuti con i telefoni analogici a filo e che pensavamo che ascoltare la musica con il walkman o (dopo) l’iPod fosse un modo per farci compagnia in viaggi in treno di qualche ora. Non ce ne rendiamo conto, ma la solitudine non appartiene più alle generazioni attuali.

Domani come saremo?

La tendenza della tecnologia è certamente quella di creare nuovi mercati e nuovi modi. Secondo noi è molto probabile che nel prossimo futuro, oltre alle reti sempre più veloci e agli universi virtuali stile Metaverso, si svilupperanno anche tecnologie ambientali sempre più sofisticate. Forme di computazione distribuita che vedrà l’utilizzo di anelli intelligenti, abiti smart, case digitali e via dicendo che si relazioneranno tra loro senza bisogno di mettere in mezzo anche un telefono e tantomeno un computer.

Se il computer diventa il nostro corpo, e l’ambiente circostante reagisce proponendoci le cose che vogliamo, di cui abbiamo voglia o che comunque ci possiamo permettere, è anche molto probabile che in questo pacchetto ci saranno esperienze e relazioni con altri che verranno veicolate attraverso la rete. E la solitudine diventerà solo un ricordo. La domanda è se questo ci farà bene. La domanda, beninteso, è retorica.

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