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Il perché e il percome delle “flame war”

Mettiamola così: qualche volta sarà  capitato anche a voi. Un esempio? Chi scrive ha lasciato un po’ di tempo fa su invito del titolare un articolo circa l’ultimo Macworld su Macchianera, popolare blog collettivo in rete. Se scorrete i commenti, avete un’ottima definizione di una flame war. Cioè, di una serie di attacchi all’arma bianca verbale, in una o nell’altra direzione.

Succede dagli albori della rete, senza che il cambiamento delle tecnologie abbia cambiato la sostanza delle cose. Tramite questo tipo di aggressioni verbali, il dibattito si fa acceso, i toni si scaldano, le modalità  costruttive di scambio si trasformano in faide digitali che vanno avanti alle volte anche per anni. Ci sono i professionisti delle flame war, che si fanno puntiglio d’onore di essere sempre in prima linea, là  dove c’è da menare le tastiere. E ci sono siti e mailing list che hanno elenchi infiniti di utenti bannati o da bannare, perché “ospiti non graditi”: attaccabrighe, rompiscatole di professione, “corpi speciali” e sabotatori della più ordinata community virtuale in circolazione nel cyberspazio.

Ma se la prassi e gli effetti del fenomeno sono sotto gli occhi di tutti, un po’ meno chiaro è come funziona il meccanismo di innesco di questo tipo di fenomeni. Ci sono “leggi” che dicono che esiste una percentuale di idioti in ogni gruppo di persone, a prescindere dalla natura del gruppo (compagni di classe o consesso di accademici), tuttavia la spiegazione non è sufficiente. Ci dev’essere qualcos’altro dietro. Qualcosa di più.

Questo si chiedevano Nicholas Epley della università  di Chicago che, insieme a Justin Kruger della New York University hanno studiato il fenomeno conducendo un’esperimento congiunto, i cui risultati sono stati appena pubblicato dal Journal of Personality and Social Psychology.

Quali sono le conclusioni? Che le escalation di violenza verbale partono da fenomeni di incomprensione totale del messaggio che si riceve. Una volta su due, infatti, non si capisce il tono di una email o di un messaggio ricevuto. Mi scrive un amico: “Non lavorare troppo!”. Sarà  stato sarcastico, spiritoso o sinceramente preoccupato per me? Una possibilità  su due, sulla base statistica dell’esperimento condotto porta a ritenere che possa sbagliare l’interpretazione. Ma il 90% delle volte sarò però convinto di aver perfettamente capito. Vedete il problema? Un mondo di persone che non riesce a capire il tono di quel che viene loro scritto (oltre alla incapacità  di molti di esprimersi in maniera facilmente intelligibile, per essere sinceri) porta a equivoci e incomprensioni. Apre la strada a nervosismi, aumenti di pressione sistolica, fumo dalle orecchie e risposte violente e sgangherate. O meglio, fuori dai gangheri.

Il problema sta tutto – secondo i due docenti – nell’egocentrismo naturale delle persone. Chi scrive ritiene di essere perfettamente chiaro perché “sente” il tono di quel che sta comparendo sullo schermo. Il problema è che chi riceve il messaggio questo tono spesso non lo sente. “Non lavorare troppo!” se sei stanco, stressato e anche un po’ incavolato per le mille grane che proprio il lavoro spesso ci riserva, può avere l’effetto di un drappo rosso agitato davanti al toro: furia!

Infine, la ricerca dei due psicologi indaga il fatto che questo tipo di messaggi, oltre a provocare flame war a profusione alle volte possono anche portare a situazioni professionalmente imbarazzanti, con scontri durissimi tra impiegati sul posto di lavoro, arrabbiati neri per una serie di email e per l’incapacità  di fare, come dicevano le nostre nonne, un semplice esercizio di umiltà : vedere le cose “con le scarpe degli altri”, cioè dal loro punto di vista. Non è questione di saper scrivere bene, è solo questione di saper ragionare e avere un minimo di sensibilità  per capire la prospettiva altrui. Oggi, qualità  sempre più rare…

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