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Mai più un caso Sco: la proprietà  intellettuale secondo Linux

Linus Torvalds è pragmatico e non ama i proclami innanzi alle folle. Per questo, per neutralizzare il rischio di un nuovo “caso Sco”, la causa miliardaria intentata a Ibm dalla società  titolare dei diritti del kernel di Unix che sostiene che sia stato copiato dentro Linux, si accontenta di mandare una semplice email.

Spedita al gruppo di lavoro (parlando di Open Source parliamo anche di un pubblico molto ampio) e assolutamente pubblica, l’email propone alla discussione preliminare per i lavori del futuro kernel 2.7 (a dicembre è uscito il nuovo 2.6, già  in fase di avanzato aggiornamento) che le singole aggiunte vengano documentate con un sistema nuovo e più articolato.

L’obiettivo è quello di fare in modo che le tracce dei vari patch e cambiamenti minori, che non sono seguiti allo stesso modo dell’impostazione delle architetture ma che rappresentano la linfa del movimento Open Source e del suo originale modello di sviluppo e di lavoro, siano “sicure” e in qualche modo garantite.

Dietro allo sviluppo della causa con Sco, la società  proprietaria di Unix basata nello Utah (è la ex Caldera, controllata da una serie di fondi di investimento) c’è anche una nuova polemica legata alla reale paternità  di Linux. Secondo una ricerca in corso di pubblicazione, infatti, Linus Torvalds non sarebbe il vero “padre” di Linux, ma solo un “copione” che ha sfruttato il lavoro di un professore universitario europeo (Tanenbaum) che ha realizzato Minix, un sistema operativo costruito sulla falsariga di Unix e che Torvalds utilizzava all’università .

In parecchi si affrettati a chiarire che le cose non stanno assolutamente così, primo tra tutti lo stesso professor Tanenbaum, che viene indicato come un forte e risentito critico nei confronti di Torvalds ma che invece ha difeso con passione il lavoro del suo allievo finlandese. Però, il moltiplicarsi di questi attacchi frontali a Linux (la fondazione che sta pubblicando il libro contenente lo studio in questione pare sia sponsorizzata per parecchi milioni dal più grande produttore al mondo di sistemi operativi con sede nella costa ovest degli Stati Uniti) solleva un problema reale.

Il modello di lavoro dell’Open Source, che è estremamente diversificato a seconda del tipo di licenza e di policy implementata dagli sviluppatori, in realtà  è vero che non garantisce i produttori del software. Solo che anziché non garantire chi si basa sul modello Closed Source (le aziende convenzionali, cioè) ed è timoroso di perdere spazio col suo business, ma proprio quelle Open Source, che non sono organizzate in modo tale da poter controbattere sino in fondo gli argomenti relativi alla proprietà  intellettuale visto il differente rapporto con gli autori e i cicli di produzione.

Da qui la mossa molto pragmatica e “misurata” di Torvalds, che dopotutto, nel 1991, proprio con una storica email segnalò la nascita del sistema operativo che prende il suo nome. Adesso, con un’altra email, propone alla comunità  di discutere il progetto di certificare le patch e i contributi al kernel. Tredici anni dopo l’Open Source praticato da Linux (e non quello teorizzato da Stallman) fa un piccolo, enorme passo in avanti per diventare il modello dominante e riconoscibile nel settore della proprietà  intellettuale del software.

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