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Westworld, cosa sognano gli androidi?

Tra gli appassionati di serie televisive, quelle che il critico televisivo del Corriere della Sera Aldo Grasso ha definito “il romanzo del XXI secolo”, vige una regola. “Chi spoilera muore”: chi anticipa il finale (o comunque dettagli salienti) del racconto di una serie televisiva è punito duramente, insomma. È con questo spirito che ci accingiamo a toccare una delle serie televisive di culto di quest’anno, che domenica sera ha trasmesso l’ultima, spettacolare e clamorosa puntata della prima stagione. Vale a dire Westworld.

La serie è il remake di un film scritto e diretto da Michael Crichton, romanziere e regista purtroppo scomparso alcuni anni fa per un tumore. L’autore di Jurassic Park e di ER Medici in prima linea, per citare solo due dei suoi più clamorosi successi, era un medico e pensatore pieno di risorse, che ancorava su una solida base scientifica le sue opere. Così fece ad esempio nel 1973 quando scrisse e diresse Westworld, film di fantascienza all’epoca straordinario e avveniristico: nel futuro per intrattenere i ricchi è stato costruito un parco divertimenti diviso in tre aree: Vecchio West, Corte di Re Artù e Impero romano.

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In ciascuna delle tre aree i clienti, che pagano mille dollari dell’epoca a notte (come fosse un hotel di grandissimo lusso), possono vestirsi come personaggi dell’epoca e, anziché interagire con attori e figuranti, hanno a che fare con raffinatissimi e sofisticati robot, indistinguibili esteriormente dalle persone normali. Con il risultato che possono sfogare tutte le loro fantasie, da quelle sessuali alla violenza più efferata (sparatorie, duelli, uccisioni) senza correre rischi di nuocere ad altri esseri umani (sono macchine) né di correre pericoli loro stessi, perché le armi dei robot sono incapaci di colpo ferire gli uomini e le donne “vere”.

Facciamo un salto in avanti di 43 anni e abbiamo il remake (anche se ci fu un dimenticabile sequel con Peter Fonda nel 1978 e una piccola serie televisiva nel 1980) firmato da Jonathan Nolan e Lisa Joy per il network HBO, e prodotta da J.J. Abrams con altri due pesi massimi dell’intrattenimento di massa, cioè Jerry Weintraub e Bryan Burk. Come nel caso di Battlestar Galactica, che negli anni Settanta era un chiassoso e colorato fumettone di fantascienza mentre all’inizio del XXI secolo diventa un capolavoro di fantascienza dark, così i dieci episodi della prima stagione di Westword hanno messo un’ipoteca su questo secondo decennio del nuovo millennio. È questa la serie che interpreta più e meglio le nostre ansie e fantasie tecnologiche?

Yul Brynner vestito da pistolero nero

Il mondo è sempre quello del futuro prossimo, ma non abbastanza da diventare irriconoscibile. L’ambientazione, l’unica che vediamo, è il centro divertimenti di Westworld, uno sconfinato parco ambientato nel Vecchio West scompare sia la parte romana che quella medievale) in cui, accanto ai guardiani, ci sono i Residenti, cioè gli androidi biologico-meccanici, evoluzione del vecchio parco (sarebbe quello di Crichton, c’è addirittura un cameo con un omaggio a Yul Brynner nel vestito da pistolero, il robot cattivo del film). Ovviamente il tema di fondo è la violenza, sia sessuale che psicologica che fisica: il sottotitolo della serie è “Westworld – *Dove tutto è concesso*” e i ricchi pagano per poter interpretare fino in fondo le loro fantasie, scoprire “chi sono realmente” facendo quello che la vita sociale e fin troppo ricca della società del futuro non consente più loro.

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Yul Brynner, il pistolero del west androide nel film cult degli anni ’70 scritto e diretto da Michael Crichton

Ma questa è solo la premessa. La storia ruota attorno anche all’altro tema: l’umanità. Cosa ci rende quel che siamo? L’essere nati da padre e da madre? Ma gli androidi, con i loro sofisticati cervelli, sono dotati di coscienza e di vita, come la intendiamo noi? Si parla di test di Turing, di ipotesi della mente bicamerale, ci sono tantissime cose che fanno risuonare interi immaginari di fantascienza. E poi c’è il premiato approccio alla Nolan e Abrams: i misteri disseminati ovunque, che si intrecciano nella trama principale e nelle sottotrame. Se ricordate Lost, il telefilm che fa da apripista al genere (che volendo potrebbe risalire sino ai Segreti di Twin Peaks), siete sulla strada giusta: anche qui ci sono indizi, sensazioni, tracce. Rivedere un episodio porta a scoprire mille indizi sfuggiti in prima battuta che poi diventano importanti per capire altro.

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Temibili indiani e Tex Willer meccanici

L’ambientazione “Vecchio West” è il punto di forza e di novità rispetto alle altre serie di questo periodo, così come la recitazione di alcuni degli attori, soprattutto la brava Evan Rachel Wood e la coppia Ed Harris e Anthony Hopkins, veri mattatori della serie. È il punto di forza perché il Vecchio West, come sanno bene i lettori nostrani ad esempio di Tex Willer della Bonelli, è territorio di narrazione, fantasia, racconto, fuga ma anche di valori, scoperta, scontro. Andare a Ovest è la base del sogno americano, il continente da conquistare, la natura indomita, i temibili indiani, il manifesto destino. È un immaginario psicanalitico tutto americano che però affonda le sue dita anche nella Vecchia Europa.

Senza contare il tema dell’androide, dell’altro artificiale. Un tema fantastico, straordinario, “meta”, perfetto per essere messo in scena: ci permette di immaginare attori che interpretano persone e attori che interpretano androidi che si comportano (e forse si credono davvero) persone. Il parco divertimenti, il vero vecchio west (il telefilm è girato nello Utah, nelle location degli western classici degli anni Quaranta), diventa quindi contemporaneamente simulazione e realtà, finzione nella finzione, ma anche verità più vera della finzione. Gli attori sono davvero nel deserto. Il tramonto è davvero nella Monumental Valley. Però i serpenti sono finti, gli indiani non ti fanno male e anche il pistolero che ti sfida a duello non ti può ferire davvero. E la madama che gestisce il casino e ti fa salire di sopra con una delle sue ragazze, ti fa vivere un’avventura che però non è davvero un tradimento, perché dopotutto è una macchina, non è una donna. L’oggettivazione al cubo.

La serie ha pochi episodi, dieci in tutto per la prima stazione mentre stanno già girando la seconda, e la redazione di Macity che ha avuto modo di vederla tutta può confermare che regge il ritmo e vale la pena, chiudendo molti “misteri” alla fine della stagione ma lasciando abbastanza carne sul fuoco da giustificare una seconda stagione. L’attrice che interpreta l’androide Dolores ha spiegato: il finale è da alzarsi in piedi e applaudire. Però ve lo posso dire perché ho già letto i copioni della prossima stagione: la prima è solo l’antipasto, è solo l’inizio”.

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