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Lo storico della tecnologia: l’€™Apple I, frutto di un ‘€œpensiero selvaggio’€

«E’ l’oggetto fondamentale per la rivoluzione informatica. L’oggetto che segna il passaggio, ancora incompleto ma già delineato, dall’era del bricolage e dell’hobbistica, a quello di una tecnologia per tutti». Così Vittorio Marchis, docente di storia della tecnologia e direttore del Centro Museo e Documentazione Storica del Politecnico di Torino, parlando con Macity a margine della cerimonia di oggi al Polito, definisce l’Apple I.

«Per i due allora giovanissimi fondatori di Apple Computer e creatori di questa macchina – prosegue il professore -, credo si possa parlare di quello che l’antropologo Lévi-Strauss definì “pensiero selvaggio”. Una sorta di intuizione, ma insieme anche di ragionamento compiuto fondato sull’esperienza pratica con la quale si riesce a riprodurre qualcosa che si conosce, ma che non si comprende in maniera scientifica e approfondita». E così i due Steve seppero “riprodurre” quello che le grandi aziende dell’informatica facevano sin dagli anni ’50. Il tutto però su un altro piano: il piano “personal”. «La strada del computer per entrare nella nostra società fu quella più personale possibile e meno legata ad un impiego business: fu il divertimento. Il computer entrò davvero nelle case di tutti, quando seppe far giocare le persone. Si pensi ai prodotti Amiga e ai prodotti Commodore, che seguirono quelli Apple».

Ma Apple ebbe un aspetto del tutto peculiare rispetto ai suoi competitor di quegli anni e degli anni immediatamente successivi, caratterizzati dai coloni Ibm. «Alla prima fase di pensiero selvaggio – riprende Marchis -, l’azienda seppe fare seguire una strategia più matura, che portò a creare una sorta di riconoscimento culturale per i suoi prodotti: un universo di senso che negli anni ha voluto dire qualità ed efficienza, ma anche elitarismo e distinzione. Credo che questo passaggio sia ben identificabile con il cambio del logo: da Newton alla mela morsicata».

Computer come segni culturali ed oggetti pienamente facenti parte della nostra società, del nostro modo di vivere, dunque. E di qui l’importanza di un progetto come quello della riaccensione delll’Apple I. «Riaccenderlo non è qualcosa solo per appassionati di elettronica o fan di Apple. E’ un tassello fondamentale in un processo di conservazione e preservazione di dati, informazioni e cultura informatica, che l’evoluzione tecnologica così veloce e per molti versi caotica altrimenti cancellerebbe». Come dire: l’innovazione non può dimenticare l’attenzione per la storia, altrimenti il prezzo sarebbe l’oblio stesso della propria identità. «Per secoli l’uomo ha affidato alla carta la conservazione delle informazioni: conoscenze tecniche e scientifiche, dati economici e finanziari, racconti, storie e immagini – spiega Marchis -. Che sia un antico papiro egizio o una stampa recente, oggi possiamo ancora leggerle senza strumentazioni che in qualche maniera facciano da mediatori. Ma con la rivoluzione digitale, avviata proprio dall’Apple I, tutto è cambiato». Insomma, se vogliamo fruire di informazioni contenute su vecchi floppy da cinque pollici e un quarto dobbiamo disporre delle macchine necessarie per farlo. «E’ l’aspetto paradossale di questa epoca in cui mai come prima l’uomo è stato capace di immagazzinare e diffondere informazioni. L’obsolescenza rapidissima delle macchine per la loro fruizione, determinata dal progresso tecnologico, mette a repentaglio la loro conservazione».

Ecco quindi che riaccendere l’Apple I è come trasformarsi in amanuensi medioevali. «Ma personalmente preferisco il paragone con le vestali dell’antichità – conclude il professore – quello che abbiamo fatto riaccendendo l’Apple I e riportando alla luce una tecnologia “vecchia”, è stato contribuire a mantenere acceso un fuoco sacro. Il fuoco della conoscenza».

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