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Google inventa l’algoritmo anti-fuga di cervelli

àˆÂ una di quelle storie da raccontare con un brivido. La riporta il Wall Street Journal nell’edizione online a pagamento: Google ha creato un algoritmo per uso interno il cui scopo è monitorare lo stato di soffisfazione dei dipendenti e prevederne l’eventuale fuoriuscita, per evitare una “fuga-di-cervelli”. Fra i 20mila dipendenti dell’azienda infatti abbondano i super-cervelloni, con Phd (il dottorato di ricerca statunitense) e la genialità  del personale serve anche per creare in piena libertà  progetti personali che poi diventano prodotti dell’azienda (Gmail ne è un esempio).

Però. Come si fa a raccontare una storia del genere in Italia? Come si fa a proporla nel paese della fuga sistematica di cervelli che, in realtà , ha una struttura del lavoro sempre meno costruita attorno al talento e al merito e sempre più attorno all’appartenenza di altro genere e alle mansioni meno sofisticate?

Guardatevi la coscienza, cari lettori, e chiedetevi quante volte vi viene chiesto di esprimere i vostri sogni e talenti. E chiedetevi anche quanto i vostri sogni e talenti vengano forgiati e arricchiti da letture e trasmissioni quotidiane che mirano ad elevarli e farli più ricchi e articolati, in modo che il vostro benessere diventi anche il benessere della collettività . Viviamo nel paese in cui le ambizioni non sono quelle di crescere facendo al tempo stesso crescere la torta comune, ma di mangiarsi la fetta più grande che si può (perlomeno, questa è la rappresentazione mediatica e politica che si percepisce per lo più) e quindi quale senso hanno notizie come quella di questo nuovo algoritmo di Google.

In buona sostanza: come può il lettore italiano già  immerso nel mondo del lavoro o che si avvicina e cerca di entrare a farne parte apprezzare lo spettro di dubbi, implicazioni, suggerimenti che una notizia come questa offre al lettore americano?

Negli Usa non c’è una superiorità  antropologica della forma di mercato e di società , ma sicuramente c’è una profonda differenza le cui cause, le cui ragioni e soprattutto le cui implicazioni non vengono mai approfondite. L’algoritmo della soddisfazione, che misura con il parsing di questionari e analizzando la storia quasi quotidiana di mansioni e retribuzioni, contributi ai progetti e perfomance complessiva non il valore del dipendente, bensì la sua voglia di trasferire il suo corredo di capitale sociale e umano in un’altra azienda, è da noi un concetto inutile.

A cosa serve, quando le logiche, le strategie e i percorsi sono completamente differenti? Senza contare lo iato fra la tipologia di lavori disponibili concretamente e quel che invece viene offerto come modello positivo e negativo nei mezzi di comunicazione di massa? Siamo divisi tra un’idea di web 2.0 con blogger dell’ora dell’aperitivo, che sognano la ricchezza (e alcuni ce la fanno, grazie alle consuete appartenenze) e una massa infinita di scimmiette ammaestrate che picchiettano sulle tastiere rubando tempo a lavori di concetto alienati, totalmente non creativi e spesso anche francamente inutili.

E quindi: però. Come si fa a raccontare una storia del genere, come quella di Google e del suo algoritmo, in Italia?

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