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Sviluppatori vogliono 200 miliardi di dollari da Apple per “limitazioni commerciali”

Due sviluppatori, inclusi quelli che hanno creato un’app denominata “Coronavirus Reporter”, ritengono che Apple promuova in modo ingiusto alcune app gratuite sull’App Store, chiedendo 200 miliardi di dollari per sé stessi e altre aziende analogamente interessate dal problema.

La controversia con gli sviluppatori dell’app “Coronavirus Reporter” risale a mesi addietro (luglio dello scorso anno). Gli sviluppatori hanno abbandonato il ricorso all’antitrust, preferendo tentare ora la via della class action con altri sviluppatori.

Gli autori di “Coronavirus Reporter”, e una diversa azienda denominata “Calid”, hanno unito le forze per “rappresentare sé stessi e altri in situazioni analoghe”. L’obiettivo è ottenere lo status di class action, richiesto al Tribunale Distrettuale del distretto settentrionale della California.

“Questa azione collettiva cerca di porre rimedio alle ingiustizie commesse da Apple a danno della base degli sviluppatori facendo necessariamente affidamento su un monopolio”, si legge nella documentazione presentata in tribunale. “I documenti qui presenti, fanno riferimento a pratiche commerciali anticoncorrenziali diventate la norma in Apple, e su come queste hanno danneggiato Coronavirus Reporter, CALID (CALendar IDentifier scheduling platform) e un numero infinito di altri soggetti identificabili dagli atti alla conduzione della class action”.

La richiesta sembra voler fare riferimento a parallelismi già visti con la storica decisione che alla fine degli anni ’90 riguardò Microsoft e di cui si occupò il Dipartimento di Giustizia, evidenziando che la Casa di Redmond in quel caso fu accusata nonostante non rifiutasse app di terze parti e non obbligava al pagamento di una quota per diventare sviluppatori registrati.

Apple, in confronto, secondo gli sviluppatori che puntano il dito contro Cupertino, “ha ottenuto la sua posizione di azienda più ricca al mondo commettendo tutti i misfatti elencati, con il pretesto della popolarità e del suo impegno per la qualità”, si legge ancora nei documenti. “Non vi è dubbio che Tim Cook abbia cercato di compensare la tragica morte di Steve Jobs – e suoi doni all’innovazione – cercando sconsideratamente il profitto, sulla scia del successo che Apple ha ottenuto con l’iPhone”.

Appleinsider spiega che per i due sviluppatori, Apple si è completamente trasformata da quella azienda che era nei giorni gloriosi di grazia creativa, diventando un’azienda che agisce alla stregua di un monopolista furtivo.

“Apple controlla circa l’80% delle transazioni commerciali che si effettuano su questo gruppo di dispositivi (smartphone)”, riporta ancora la documentazione portata in tribunale; “con questo modello, Apple vende ai consumatori un pacchetto di hardware e software”. “Il consumatore è inconsapevole dell’esistenza degli sviluppatori, se questi non sono approvati e pubblicizzati da Apple”. E ancora: “Il commerciante dei record per tutti gli acquisti di app su iPhone è, di fatto, Apple”.

Nei documenti depositati si fa riferimento alla regolazione e allo scorporo forzato. Il caso più noto in questo settore è quello con il quale fu sottoposta allo Sherman Act la Standard Oil, decisione che portò allo smembramento della potente holding nel settore petrolifero.

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A metà marzo dello scorso anno, Apple ha ribadito il suo impegno di voler rendere l’App Store un “un luogo sicuro e affidabile”, riferendo che le app legate in qualsiasi modo al coronavirus, sarebbero state valutate “criticamente”, al fine di garantire la sicurezza nella gestione dei dati, e che gli sviluppatori che presentano queste app dovevano essere riconosciute entità, quali organizzazioni governative, note ONG che operano nel settore della salute, aziende accreditate nell’ambito sanitario, istituzioni mediche o educative. Dopo il rifiuto di Apple di accettare l’app “Coronavirus Reporter”, gli sviluppatori dell’app hanno presentato ricorso. L’app è stata ad ogni modo rifiutata di nuovo 20 giorni dopo, non essendo – secondo Apple – sostenuta da nessuna riconosciuta azienda del settore sanitario e perché “l’accuratezza dei dati generati dagli utenti non è verificata da una fonte attendibile”.

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