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Apple ed IBM, gli arcinemici fraterni che Jobs avrebbe ripudiato

Amici nemici. “Frenemies”, come si diceva qualche anno fa negli Usa. Apple e IBM. Che annunciano uno straordinario accordo per fare business assieme, come avete letto nei nostri articoli: IBM ci mette le app per il cloud dei suoi servizi, promuovendo gli iPad presso i suoi clienti, e Apple ci mette la più matura piattaforma per la mobilità dell’era post-PC.

Strano, stranissimo accordo, se ci si pensa, perché la storia di Apple e IBM va molto indietro e tocca corde che solleticano la memoria di tanti di noi. La prima ovviamente va all’avventura dei PowerPC, alla quale aveva partecipato anche Motorola. I processori G3, G4 e G5, prodotti dalle due aziende e progettati assieme ad Apple avevano tenuto alta la bandiera della diversità quando era finita l’epoca dei Motorola 68000 utilizzati sui primi Macintosh. Da un lato il mondo degli x86 Cisc di Intel (a cui Apple poi cedette nel 2005), e dall’altro quello dei PowerPC con architettura Risc. Un mondo che a dire la verità va ancora avanti, perché IBM non ha mollato il colpo ma solo lo ha indirizzato dove le conveniva di più: dalla Playstation fino ai mainframe (oggi con i nuovi processori Power8) perché era là che si guadagnava, mentre l’asfittico mercato Mac garantiva pochi milioni di colpi a bassissime marginalità

Quell’epopea, una transizione degna di Mosé che cerca la terra promessa, che il vostro umile cronista e lo staff più “antico” di Macity ha vissuto in prima persona, è inciso a lettere di fuoco nella mente di tutti noi. Ma non è stato il solo. A pensarci bene, facendo un salto un po’ indietro nel tempo, IBM è stato anche l’arcinemico di Apple, anzi l’archetipo dell’arcinemico, ben prima che a questo ruolo si prestasse Bill Gates con la sua Microsoft.

Quando l’azienda era ancora poco rilevante – ma stava per diventarlo grazie proprio a IBM – Apple si era messa di buzzo buono a costruire un mondo alternativo a quello aziendale dei Man in Black di Big Blue: l’epopea dei computer personali nasce nella Silicon Valley in un clima controculturale con la colonna sonora dei Grateful Dead che disistima le big corporation del complesso militare-aziendale schierato contro la democrazia. Non a caso nella mitica pubblicità di Ridley Scott (il regista di Blade Runner) intitolata 1984 trasmessa solo una volta durante il Super Bowl di quell’anno per lanciare il Macintosh originale, ma divenuta immortale, il Big Brother sullo schermo non è un occhialuto Bill Gates, piuttosto un dittatore tecnocrate palesemente ispirato ad IBM.

Il maglio di Apple colpiva quell’azienda che nel 1981 aveva registrato con la sigla “P.C.” il personal computer cercando di appropriarsi di quel mercato da hobbysti che in realtà solo Bill Gates avrebbe saputo conquistare completamente e con l’intelligenza di una intuizione fondamentale, cioè che in quella fase il software valeva più dell’hardware, se si creavano degli standard comuni.

Pochi anni dopo il Grande Fratello-Grande Nemico diventa l’alleato contro lo strapotere di WinTel: la transazione da Motorola al consorzio Motorola-IBM-Apple avviene nel 1991 durante la reggenza di John Sculley, e arriva a compimento nel 1994. È in quell’anno che arrivano i processori “Performance Optimization With Enhanced RISC – Performance Computing” (questo il senso della sigla per esteso). Venti anni fa, sembra una vita e Apple era ormai sull’orlo del baratro, peggiorando di anno in anno sino al ritorno di Steve Jobs nel 1997.

Apple ed IBM

WinTel intanto, cioè l’alleanza (Microsoft) Windows-Intel, che struttura il mercato attorno ai cicli di aggiornamento dei processori e dei sistemi operativi, necessari gli uni agli altri e quindi che costringono gli utenti ad aggiornare sistematicamente la propria dotazione sulla scia di una legge coniata da uno dei fondatori di Intel, legge di Moore, che prevede sostanziali miglioramenti in cicli di 18 e poi 12 mesi dal punto di vista della CPU, alla quale fa eco Microsoft con una serie di rilasci di versioni maggiori e minori dei sistemi operativi che drogano il mercato e portano a forme di obsolescenza programmata.

Intel da allora è stata costretta ad abbandonare la visione dominante della legge di Moore per cercare altri vettori di crescita – fondamentali in un settore a così alto tasso di investimenti sulla ricerca e sviluppo – sino ad arrivare nel 2007 all’equilibrio attuale della strategia tick-tock, peraltro messa in crisi tra poco dalla fine della corsa alla miniaturizzazione delle componenti (un gate di dimensioni inferiori a quelle di un atomo non è più funzionale).

Così, in un mondo in cui Apple abbandona IBM (e Motorola, in crisi, poi acquisita da Google e smembrata) sembra un mondo semplice. Ma la strategia era più complessa: Apple sposa la visione di Intel per i desktop e laptop ma lavora ad architetture Arm per gli apparecchi post-Pc e saranno proprio questi apparecchi la chiave per far rientrare dalla finestra IBM come partner preferenziale non più nelle architetture hardware (ma non si può mai dire) quanto in quelle commerciali.
Aprendo un nuovo fronte, quasi inedito. In passato Apple si era già occupata di settori aziendali, di vendita B2B. Ma non lo aveva mai fatto con Steve Jobs, che inseguiva un differente paradigma. Sosteneva che lui voleva conquistare uno per uno i suoi utenti con apparecchi all’altezza, non certo convincere una persona (il decisore) per poi costringere tutti gli utenti ad usare la sua piattaforma, come accade in ambito aziendale.

Il percorso era onesto e ha iniziato una rivoluzione dal basso che ha cambiato la faccia del mercato aziendale grazie al BYOD, Bring Your Own Device, cioè l’abitudine di usare i propri apparecchi elettronici sul posto di lavoro, siano essi computer che smartphone e tablet. Ma attenzione, perché quello che per pudore ipocrita la stampa generalista chiama “computer, smartphone e tablet”, nove volte su dieci sono i Mac, gli iPhone e gli iPad che oggi vengono usati dal 98% dei Fortune 500. E sull’ultimo due per cento Apple ha dimostrato di avere intenzione di lavorarci, visto l’accordo con IBM.

In questo senso si capisce ancora meglio: IBM, che ha venduto la sua divisione PC (ThinkPad e ThinkCentre) ai cinesi di Lenovo nel 2007 (e adesso anche i server x86), mira a tornare in questo settore con un partner di innovazione, studiando assieme un modo per creare piattaforme stabili e funzionali. Le app cloud, che IBM sviluppa grazie a una serie di tecnologie sviluppate negli ultimi anni e alla volontà di espandersi in questo settore finora dominato da altri attori come ad esempio Amazon, indicano che anche nel settore aziendale si stanno aprendo finestre per integrazione verticale tra hardware, software e servizi. Come Steve Jobs aveva sempre predicato, citando Alan Kay: se vuoi costruire del buon hardware, devi prenderti cura anche del software (e viceversa, probabilmente). Contrario a tutte le teologie del software libero, nemico di tutti i paradigmi che portano alla realizzazione inefficienti e da un punto di vista ingegneristico ineleganti, è il paradigma che si sta rivelando vincente se gli interessi economici non distorcono la realtà prima.

Avete presente quanti layer di astrazione poggiano sull’hardware di un telefono multicore Android, che non è efficiente e non riesce a usare in maniera energeticamente sana il processore, ricorrendo alla forza bruta per ottenere i risultati che Apple porta a casa con più intelligenti ottimizzazioni? Ebbene, Apple ha mostrato che altre strade sono possibili e con IBM ne sta aprendo una nuova. Difficilmente Steve Jobs avrebbe stretto un accordo di questo genere, perché abituato ad essere pirata e uomo di poche alleanze (lo disse anche riconoscendo questa qualità a Bill Gates, che gli riconobbe invece un innato buon gusto), mentre per Tim Cook è perfetto: l’uomo che ha preso l’azienda di successo e l’ha portata alla velocità della luce è uomo di sinergie, accordi, efficientamento e parallelizzazione. Ora, vedremo quali saranno i risultati dei nuovi prodotti del prossimo autunno e inverno, ma intanto sul versante industriale, niente da dire.

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