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E’ l’anniversario della fine della New Economy

Cinque anni fa, diciotto mesi prima della tragedia dell’11 settembre, cominciava il crollo delle New Economy. Di acqua sotto i ponti da allora ne è passata moltissima, ancora di più se si pensa che pochi anni prima un politilogo americano postulava la “fine della storia” (intendendo l’arrivo di una età  dell’uomo in cui il progresso avrebbe garantito un procedere lineare e non più spezzato da salti ed eventi drammatici), ma nonostante questo ancora molte cose devono essere messe in prospettiva.

Nel mercato e sui giornali il termine New Economy è diventata in un arco di tempo brevissimo da parola magica a vero e proprio tabù. I mesi che hanno condotto all’esplosione della bolla inflazionistica che aveva avvolto dalla metà  degli anni Novanta i mercati finanziari di tutto il mondo, alimentata dall’entusiasmo per Internet e le nuove tecnologie, ha bruciato in un sol colpo il più grande quantitativo di denaro della storia.

Tra i tanti “digital divide” di cui si parla, però, intendendo sia la separazione tra utenti delle tecnologie informatiche e persone escluse da questa “conoscenza e ricchezza digitale”, ve n’è anche uno che ha a che fare con la separazione tra tecnocrati e imprenditori. E qui, dopo cinque anni dalla fine dell’euforia, pare che il gap non si sia colmato.

Secondo varie analisi di mercato e survey condotte da centri di ricerca, la conoscenza del fattore tecnologico e di quello imprenditoriale (nei differenti aspetti commerciali e di marketing) sono chiavi di successo che appartengono a mazzi differenti. Talmente differenti da far temere che la lezione del 2000 non sia stata capita.

Chi gioca con il valore in Borsa e l’investimento azionario, infatti, pare non sempre abbia all’interno o all’esterno della sua start-up una chiara percezione del fattore tecnologico in tutte le sue implicazioni. Contemporaneamente, chi possiede la conoscenza tecnologica non comunica (o non riesce) gli aspetti salienti dell’impatto che questa avrà  sul sistema.

Si ripropongono quindi i grandi entusiasmi e i grandi fraintendimenti. Le aziende e i consumatori, genericamente interrogati, lasciano intravedere spiragli di mercato laddove mercato poi non ci sarà , mentre chi progetta si lancia verso avventure in cui il fattore tecnologico – considerato determinante – viene decontestualizzato e considerato avulso dal quadro complessivo del progresso tecnologico.

Dove conduce questa via? Secondo le cassandre dell’economia verso un nuovo sfascio. Secondo altri, più attempati economisti, verso la ricerca di un lento equilibrio spontaneo del mercato attraverso crisi di aggiustamento successive, che fungono anche da fattore di metabolizzazione del progresso tecnologico nella società  e sul mercato.

Questa settimana, comunque, si celebra mestamente (oltre all’anniversario del terribile attentato in Spagna) la più grande devastazione economica della storia dell’economia di mercato. La lezione è lì, sui libri e nelle cronache di quei giorni, a perenne monito.

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