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Il futuro appartiene al software che si piega senza spezzarsi

Per decenni abbiamo accettato un compromesso tacito con il software: piegarci alle sue logiche in cambio dei suoi benefici. Ogni applicazione aveva le sue regole, i suoi percorsi obbligati, le sue limitazioni invalicabili. L’utente imparava ad adattarsi, memorizzava procedure, si rassegnava a workaround creativi quando il programma non faceva quello che serviva davvero. Avete presente i corsi per imparare a usare Windows e Office? I template predefiniti per cui, qualsiasi cosa uno voglia fare, è più facile farlo come è previsto che si debba fare? Ecco, tutto questo oggi viene messo in dubbio e forse arriva al termine.

Infatti, l’intelligenza artificiale generativa sta cambiando le carte in tavola, promettendo un futuro in cui sarà il software ad adattarsi a noi. Un futuro fatto di sistemi che sono in grado di capire cosa vogliamo e trovano il modo di farlo, anziché costringerci a fare solo quello che il sistema può fare e nel modo con il quale si può fare. Sembra fantascienza, ma è un probabile cambiamento che sta iniziando adesso.

La nostra epoca digitale è schiava di un paradosso, sotto gli occhi di tutti: siamo pieni di strumenti di una potenza computazionale enorme, inimmaginabile solo pochi anni fa, eppure spesso rigidi come armature medievali. Ed è una realtà talmente ovvia che non riusciamo quasi a renderci conto che si tratta della nostra prigione concettuale.

Esempi? Certo. Un foglio di calcolo può elaborare milioni di dati ma non sa adattarsi al modo specifico in cui una piccola azienda gestisce i suoi progetti. Un’applicazione di produttività può sincronizzarsi istantaneamente su tutti i dispositivi ma non può modificare la sua interfaccia per chi ha esigenze particolari. La flessibilità, quando esiste, è confinata nelle “impostazioni”, una collezione di interruttori binari che raramente catturano la complessità delle necessità reali. Un esempio? Le impostazioni di sistema di macOS o di iOS. Una giungla di roba per cui, se si vuole andare oltre i due o tre settaggi di base, si fa prima a usare la funzione “cerca” che non a procedere logicamente, perché logica non ci può essere con così tante variabili in gioco.

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Le radici dimenticate

Questa rigidità non era inevitabile. Negli anni Ottanta, quando l’informatica personale muoveva i primi passi, esistevano visioni diverse. HyperCard di Apple permetteva a chiunque di creare applicazioni personalizzate assemblando card interattive, senza scrivere una riga di codice. Era software malleabile nella sua forma più pura: uno strumento che cresceva e si trasformava nelle mani dell’utente.

Non si trattava tanto di uno strumento “no code” pensato per i programmatori, quanto un modo per consentire di modellare facilmente un ambiente in modo che facesse quello che volevamo. Alan Kay, uno dei padri dell’informatica moderna, parlava del software come di “argilla“, un materiale da plasmare secondo le necessità del momento.

Quella visione si è persa nell’era delle applicazioni monolitiche e degli app store. Il software è diventato un prodotto industriale, progettato in laboratori isolati per un “utente medio” che non esiste. La personalizzazione si è ridotta a scegliere tra opzioni predefinite, come ordinare un panino in una catena di fast food. La creatività individuale è stata sacrificata sull’altare della scalabilità commerciale e della semplicità d’uso. Il risultato è un ecosistema digitale potente ma omologante, efficiente ma poco umano.

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Ma l’intelligenza artificiale sta riaprendo quella strada dimenticata. Non più come utopia tecnologica di pochi visionari, ma come realtà concreta alla portata di milioni di persone. La GenAI può finalmente colmare il divario tra intenzione e implementazione, tra il “cosa voglio fare” e il “come farlo tecnicamente“.

Da un certo punto di vista la GenAI è il traduttore universale tra le nostre intenzioni e la loro realizzazione. È il sistema che mancava, capace di trasformare un’idea espressa in linguaggio naturale in codice funzionante, configurazioni personalizzate, automatismi su misura. Tutta quella roba della quale a noi non interessa niente.

Se ci pensate, la piattaforma Apple del Macintosh all’inizio era proprio così. In un’epoca di riga di comando, Ms-DOS e sistemi ai quali scrivere istruzioni, il Mac era una piattaforma per fare quello che si voleva visivamente, cioè con una interfaccia grafica. Questa cosa rendeva inutile capire il “come si fa tecnicamente” dietro le quinte: bastava spostare gli oggetti e le cose succedevano: file copiati, aperti, salvati, spostati da un disco all’altro.

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Il nuovo paradigma

Oggi paradossalmente siamo regrediti. E questo si vede soprattutto nei sistemi SaaS, software as a service, che costringono a fare solo le cose che si possono fare. Il cambiamento fondamentale sta nello spostamento del focus. Tradizionalmente, usare un software significava imparare il suo linguaggio: dove cliccare, quale sequenza di comandi utilizzare, come aggirare i suoi limiti.

Con l’AI, si fa un nuovo salto di qualità come il passaggio dall’interfaccia testuale a quella grafica degli anni Ottanta: l’utente può concentrarsi sul “cosa” vuole ottenere, lasciando che sia la macchina a occuparsi del “come”. Non più adattamento dell’uomo alla macchina, ma adattamento della macchina all’uomo. È (di nuovo) una rivoluzione copernicana nel rapporto tra persone e tecnologia.

La cosa fondamentale è che questo passaggio democratizza la personalizzazione software. Chi oggi può modificare un’applicazione web per le proprie esigenze? Solitamente solo chi sa programmare, o chi ha le risorse per assumere qualcuno che lo faccia. Con l’AI come intermediario, la barriera tecnica collassa.

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Un insegnante può creare uno strumento personalizzato per gestire i voti dei suoi studenti. Un artigiano può modificare un sistema di inventario per adattarlo al suo laboratorio. Un medico può personalizzare la cartella clinica elettronica per il suo modo di lavorare.

Se questo approccio deve avere un nome, allora che sia chiamato software malleabile. Perché malleabile vuol dire che non è solo più flessibile: è fondamentalmente diverso. Invece di applicazioni monolitiche che fanno tutto ma niente perfettamente, emergono strumenti specializzati ma componibili. Come un coltello da cucina, che può tagliare qualsiasi cosa invece di essere utile solo per un singolo ingrediente.

Ogni strumento, in questa prospettiva, fa bene una cosa specifica, ma può collaborare con altri per costruire workflow complessi e personalizzati. L’AI orchestra questa collaborazione, creando sinfonie di produttività su misura per ogni utente. Se tutto avviene dietro le quinte, la prospettiva diventa intrigante.

Il software malleabile vuol dire teoricamente che serviranno sempre meno applicazioni visibili per l’utente, ma solo poche super-app potenziate dall’AI (o solo sistemi operativi ibridati con l’AI) ai quali si può chiedere qualsiasi cosa.

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Il futuro che ci attende

Per questo motivo pensiamo che le implicazioni per l’industria del software siano enormi. I prodotti rigidi, per quanto ben progettati, diventeranno progressivamente meno competitivi. Perché accontentarsi di un processo preconfezionato quando si può averne uno su misura? L’AI abbatte il costo della personalizzazione, rendendo economicamente sostenibile quello che prima era privilegio di pochi.

Le aziende che sapranno cavalcare questa trasformazione avranno un vantaggio competitivo decisivo? Con tutta probabilità sì. Quelle che resteranno ancorate ai vecchi paradigmi rischiano l’irrilevanza. La rivoluzione della GenAI potrebbe essere questa.

Non tutto sarà semplice. Il software malleabile porta con sé nuove complessità: questioni di sicurezza quando il codice viene generato al volo, problemi di governance quando ogni utente può modificare i suoi strumenti, rischi di frammentazione quando la standardizzazione lascia il posto alla personalizzazione estrema. La flessibilità ha un prezzo, e bisognerà imparare a gestirlo. Ma i benefici possono superare i rischi, soprattutto in un mondo dove il lavoro diventa sempre più creativo e personalizzato.

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Se ci spingiamo oltre la linea dell’orizzonte e proviamo a immaginare il futuro (cosa che con la tecnologia è ovviamente impossibile, visto la rapidità dei cambiamenti nell’immediato che rimettono in gioco traiettorie e prospettive) potremmo spingerci a dire che il software del futuro sarà più simile a un organismo vivente che a una macchina industriale. Si adatterà, evolverà, imparerà dalle abitudini dei suoi utenti.

Quindi, non più strumenti che costringono a cambiare il proprio modo di lavorare, ma alleati digitali che amplificano le capacità umane rispettandone l’unicità. In questo scenario, l’intelligenza artificiale applicata al software (che ogni giorno che passa è sempre più presente nelle nostre vite) non sostituisce l’uomo ma lo libera: dalla rigidità della tecnologia, dalla tirannia del “si è sempre fatto così”, dall’obbligo di adattarsi invece che essere se stessi.

La rivoluzione è già iniziata? Probabilmente sì. Il software malleabile non è tanto una visione futuristica ma una possibilità concreta, una realtà emergente fatta di agenti e agentic, alimentata dall’AI generativa e dalla crescente consapevolezza che la tecnologia deve servire l’uomo, non il contrario.

Il futuro appartiene davvero al software che si piega senza spezzarsi, che si adatta invece di imporre, che amplifica la creatività umana invece di limitarla. È tempo di abbandonare l’era delle applicazioni rigide e abbracciare quella degli strumenti intelligenti. Basta un’unica app, un editor vuoto che ascolta i nostri desideri e li realizza, una lampada con la quale evocare il genio dell’AI, per sostituire milioni di app commerciali. Il cambiamento è inevitabile: meglio guidarlo che subirlo.

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