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Il ponte Morandi di Genova e la tecnologia che non salva

Il ponte di Genova crollato il 14 Agosto era un ponte strallato realizzato con una tecnica particolare: gli stralli erano realizzati con trefoli in acciaio come si usa normalmente ma precompressi rivestiti in calcestruzzo combinando materiali dalla duttilità molto diversa: acciaio e calcestruzzo lavorano bene insieme in condizioni di funzionamento statico ma quando le sollecitazioni dei carichi sono continue e il funzionamento dipendente anche dalle temperatura con dilatazioni differenziate tra estate e inverno gli stralli sono sottoposti a forze che  tendono a mettere in crisi la risposta del materiale.

Il ponte Morandi di Genova e la tecnologia che non salva
[ponti strallati – immagini dal sito stradeautostrade.it]
I carichi

Pure se un ponte è progettato per resistere in sicurezza a carichi e sovraccarichi non dimentichiamoci una cosa: i mezzi circolanti negli anni ’60 erano molto diversi da quelli che circolano oggi e in molti casi per rispondere a esigenze di mercato e di ottimizzazione delle trasferte i camion attuali hanno carichi sugli assi che fanno diventare i trasporti eccezionali un evento “normale”. Un ponte che di per se è progettato con un sistema statico prevalente con l’uso di stralli “misti” nella duttilità dei materiali e con sollecitazioni dinamiche di gran lunga superiori a quelle di progetto è sicuramente sottoposto ad uno stress che porta alla necessità di continui controlli e manutenzioni.

Ma le cause vere del cedimento del ponte probabilmente non saranno il frutto di una singola azione o inazione (la manutenzione più o meno efficace) bensì tutta una serie di elementi concomitanti che possono aver contribuito a creare il disastro che potranno essere valutati solo dopo un attento esame dei dati e di ciò che rimane della struttura. Ma aldilà della catastrofe finale non possiamo pensare che il cedimento possa essere avvenuto senza segnali.

La tecnologia che c’è ma non viene utilizzata

Chi lavora nel campo dell’ingegneria sa benissimo che le situazioni di pericolo vengono monitorate e gli strumenti per farlo esistono da decenni: sono in grado di determinare le dilatazioni, l’allargamento di una crepa, la frequenza e la consistenza delle flessioni di una trave nel tempo, la tensione presente in un strallo e da anni, grazie a quella che chiamiamo ormai comunemente IOT, Internet Of Things, di comunicare i dati in tempo reale ad una centrale di rilevamento. 

Ma i controlli di legge vengono eseguiti, ovviamente in maniera approfonditam con intervalli di mesi e mesi, pure di anni, senza tenere conto che gli eventi catastrofici possono rispondere a sollecitazioni intense (se si escludono quelle istantanee dovute a terrremoti) che durano qualche giorno semplicemente per picchi di traffico tanto più pericolosi su una struttura in pericolo.

Se, come leggiamo nelle dichiarazioni di illustri cattedratici, il ponte Morandi era da anni un ponte a rischio, che necessitava di continue manutenzioni e magari sottoposto a carichi continui per cui non era stato progettato nell’uso normale, perchè queste tecnologie che hanno un costo di qualche migliaio di Euro non erano state implementate?

Perché non era stato studiato o implementato un sistema di allarme che prevedesse almeno l’interruzione del traffico in presenza di una anomalia del comportamento del ponte o un peggioramento delle sue condizioni?

Il ponte non si sarebbe salvato ma forse tante auto non sarebbero cadute di sotto nel torrente Polcevera e si sarebbero risparmiate tante vite.

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