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Ecco perché i giudici dovrebbero imparare a programmare

Il grande dibattito di questi ultimi mesi, che segue la creazione dei due regolamenti europei sul digitale, ha riguardato soprattutto Apple. È un dibattito complesso, che coinvolge aziende multimiliardarie, lunghe liti commerciali e giudiziarie (come quella tra Apple ed Epic), prese di posizione politiche dei governanti della UE e giudizi degli organi di controllo e giudiziari europei. È difficile capire quale sia il piano corretto per leggere e interpretare il tutto soprattutto perché non c’è: alcune di queste scelte e di questi conflitti rappresentano visioni completamente diverse del mondo, del modo di fare business, della stessa logica che ci deve essere nelle relazioni commerciali e sociali.

Pubblicità, tracciamento, utilizzo dei dati personali, ma anche diritto alla competizione, diritto alla creazione di piattaforme, diritti di farsi pagare oppure no. C’è talmente tanto dentro che per il lettore medio e non coinvolto direttamente (almeno all’apparenza) è difficilissimo farsi una opinione fondata, perché lo è anche per il tecnico o lo specialista. Quel che vogliamo sostenere qui, infatti, è che il discorso sia talmente ampio e gli interessi in gioco talmente tanti, che praticamente nessuno ha un’idea chiara di tutto quello che c’è sul tavolo.

Uno dei grandi conflitti

Apple è l’azienda che è andata più spesso sui giornali e questo, con un certo mestiere, è stato sfruttato anche dai politici delle istituzioni europee: un po’ di articoli fanno sempre buon sangue elettorale. Nei giorni scorsi una vicenda lunghissima, quella della regolamentazione dell’App Store in Europa, è venuta fuori con tutta la sua forza e contemporaneamente anche quella sulla legittimità del “balzello di Apple”, la tassa che gli sviluppatori devono pagare per poter far soldi con il loro software sullo store di Apple.

Ci sono tantissime posizioni diverse, più o meno lecite e più o meno razionali o in buona fede, ammesso che le aziende grandi o piccole possano essere ritenute soggetti che agiscono “in buona fede” o “in cattiva fede”. Non sono persone e, si presume nel rispetto delle regole, cercano di massimizzare gli utili con una manifestazione dei propri valori oltre che dei propri prodotti o servizi. Lo scontro tra Apple ed Epic è un esempio fantastico di questo, soprattutto quando si legge che con il rilascio della versione 5.4 di Unreal Engine a fine aprile Epic Games prevede di addebitare agli sviluppatori non di giochi 1.850 dollari per postazione all’anno per l’utilizzo di Unreal Engine, invece di una tassa sui giochi basata sulle royalties.

Il problema di chi ha ragione

È una contraddizione, rispetto allo scontro con Apple sull’App Store e le royalties chieste là? È giustificato il bisogno di monetizzare un prodotto software “interno” di un certo tipo (l’Unreal Engine) rispetto a una piattaforma, che è sostanzialmente una somma di prodotti software e capacità di calcolo, archiviazione e trasmissione dati (l’App Store) dall’altro? È diventato completamente trasparente il lavoro fatto da Apple per la creazione e l’evoluzione e il mantenimento del suo ecosistema di prodotti che sono abilitatori di opportunità di business per gli sviluppatori terze parti?

La risposta a questo tipo di domande sinora è vista con una serie di parametri che sono essenzialmente quelli delle norme di diritto, quelli della regolamentazione economica dei mercati e poi una serie di principi più astratti che passano sui giornali e nel web per essere “la giustizia” e “l’equità” di quella piuttosto che quell’altra posizione, ma che sono in realtà delle titaniche semplificazioni oltretutto sbagliate dal punto di vista dei bersagli che cercano di cogliere.

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L’architetto e l’imbianchino

Proviamo a fare un esperimento mentale. Immaginiamo che chi deve produrre qualcosa non abbia la più pallida idea di come venga prodotto. Un imprenditore che mette su un’attività facendo lavorare persone per fare cose che ignora completamente. Tutto quel che vede è il risultato, cosa ne viene fuori. Non stiamo parlando di incapacità a fare la stessa cosa (Gianni Agnelli non sarebbe stato un abile tornitore, probabilmente, o un meccanico di linea) ma la comprensione intellettuale delle attività, delle difficoltà, del senso di quel che viene fatto.

Guardiamo un caso diverso, più difficile. Mettiamola in un altro modo: mentre più o meno tutti abbiamo idea di che lavoro debba farci un imbianchino quando viene in casa a tinteggiare, le cose cambiano quando chiediamo a un architetto di progettare la casa dove vorremmo andare a vivere. Il progetto richiede da parte dell’architetto l’ascolto delle nostre richieste, ma anche un lavoro che la maggior parte delle persone non comprende bene. Tant’è vero che, nel corso degli anni, le normative che regolano la costruzione (o la ristrutturazione) delle case sono diventate sempre più complesse ma sono anche sempre più fatte da tecnici. E in tutti i comuni ci sono dei tecnici e degli uffici predisposti a gestire questo tipo di complessità, mentre nel corso dei decenni lentamente una cultura urbanistica e architettonica si è fatto largo nella testa dei politici e degli elettori, per chiarire cosa vuol dire vivere in determinati contesti rispetto ad altri, quali impatti abbia sull’ambiente, sulla società e via dicendo.

Ancora poco tempo fa Renzo Piano, uno degli architetti italiani più famosi al mondo, ha proposto una politica di “rammendi” per recuperare le brutte periferie in cattive condizioni anziché continuare a costruire a vuoto. L’ha proposto perché ha visto quanto la politica ancora capisca poco dell’impatto complessivo dell’edilizia nella vita delle persone e delle società, prestando più attenzione ai problemi economici che non al modo più sensato di indirizzare quelli sociali e urbani.

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Photo Unsplash

Il programmatore e lo script kid

Ecco, tutto questo per dire che anche settori che dovrebbero essere ben metabolizzati socialmente hanno forti componenti tecniche e impatti complessi. Bene fa allora la UE a seguire, in coerenza con i principi delle democrazie sociali che la compongono (contrapposti alla visione più competitiva e con meno regole della democrazia liberale nordamericana) a spingere sulle regole. Ma fa meno bene quando queste regole vengono pensate e poi vengono messe in essere e validate da persone che con l’informatica hanno un rapporto quando va bene da utenti. Competenze giuridiche, economiche e sociali ma certamente scarse o inesistenti competenze informatiche. Competenze di cultura informatica.

Non sono competenze universitarie (i professori di disegno o di composizione architettonica non sono necessariamente buoni architetti sul campo) e neanche imprenditoriali, cioè del tipo che bisogna prendere manager e imprenditori delle aziende e metterli a far politica o scrivere leggi. No. Quel che manca sono magistrati, dirigenti e parlamentari che si siano confrontati nella loro vita professionale con veri problemi di informatica, che ne abbiano capito i principi di funzionamento e le difficoltà, i limiti e le opportunità. Altrimenti diventano scelte di politica industriale legate a fattori economici e sociali di tipo tecnocratico (come l’obbligo sacrosanto di usare i cavetti Usb-C per i caricabatterie dei telefonini). Però per capire se una piattaforma ha ragione a chiedere soldi a chi la usa oppure sta esagerando e tassando ingiustamente chi la usa richiede una competenza che mette le mani nella pasta della materia. Come si programma? Quali strumenti si usano? Che sforzo bisogna fare e quali facilitazioni sono possibili?

Perché i giudici devono saper programmare

Non ci vuole molto a capire in realtà che, mentre politici e amministratori e giudici di determinate estrazioni sociali capivano molto bene il lavoro degli operai in fabbrica o la precarietà del lavoro nel settore dei servizi o la svalutazione dei titoli di studio ad esempio di medici e avvocati, dall’altro lato il lavoro del programmatore è visto come a) l’unico possibile in informatica (falso), b) è paragonabile a chi sistema la stampante dell’ufficio che non va o sblocca la casella di posta che si è intasata, oppure c) è un hacker che fa “cose magiche” (possibilmente di notte con una felpa nera con il cappuccio sulla testa).

Inoltre, travolti dalla burocrazia digitale (che è una aberrazione dei sistemi informatici portata avanti da generazioni di burocrati che non capivano la cultura informatica e sono interessati solo a mantenere saldamente la propria posizione all’interno delle organizzazioni complesse), molti tra politici, amministratori e giudici pensano che l’informatica sia anche una sorta di Microsoft Word, Excel e CMS online all’ennesima potenza. Per cui quando si impara a usare il gestionale Oracle o SAP e il client di posta (Outlook? Lotus Notes?) che deve essere utilizzato per fare qualsiasi cosa in ambiente burocratico, si è capito tutto.

I quadri concettuali usati dalle istituzioni sono fatti apposta per capire la realtà e sono molto complessi e tecnicamente sofisticati, certo. Ma sono sufficienti per capire la cultura informatica, se legislatori e giudici non sanno programmare? Se non sanno arrivare ai principi reali e calati nella realtà? Come si può pensare che, se da un lato un giurista ha ben chiaro cosa sia il lavoro in fabbrica e per questo è in grado di fare leggi e giudicare la loro corretta applicazione nel concreto, dall’altro non abbia la più pallida idea di cosa sia un App Store eppure lo giudica con altrettanta dedizione?

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