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Il problema di fiducia delle compagnie telefoniche dopo il terremoto Iliad

L’arrivo di Iliad, l’operatore telefonico low cost francese, è stato una specie di terremoto (previsto) per il mercato della telefonia italiana. Gigantesco ma in mano a quello che alcuni definiscono un cartello di operatori, cioè un insieme di compagnie telefoniche che avevano prezzi elevati e praticano strategie di mercato piuttosto discutibili.

È una valutazione e, anche se può essere condivisibile, non è necessariamente l’unica. C’è infatti anche chi sostiene il contrario, ovvero che “la Commissione Ue continua a consentire l’accesso di new entrant a dispetto del consolidamento auspicato dagli operatori per tenere testa alle sfide prossime venture. La guerra dei prezzi rischia un effetto boomerang senza precedenti: ce la faranno le telco a sostenere gli investimenti per il 5G?”.

Chi lo sa. In realtà oggi c’è più da chiedersi se i consumatori abbiano ancora voglia di vedersi tartassati da strategie di mercato decisamente offensive della loro intelligenza ancor più e ancor prima che del loro portafogli. Siamo passati attraverso una serie di fasi, come la tariffazione mensile a base di quattro settimane che ha trasformato l’anno in un periodo di tempo di 13 mesi, a servizi inutili, nascosti, fedigrafi, che stiravano mezz’euro qui, mezz’euro là.

Il problema di fiducia compagnie telefoniche

Se c’è da rientrare in questo modo degli investimenti delle telco, forse sarebbe il caso di ridiscutere tutta la struttura dei costi: dalle gare di assegnazione delle frequenze (che vengono incamerate dallo Stato e non certo dai cittadini, ad esempio con uno sconto sulla dichiarazione dei redditi), sino ai costi di sviluppo di reti che in realtà hanno bassissimo contenuto di innovazione locale.

Infatti, nonostante i proclami del marketing delle solite telco che sono state le prime a fare questo a 4,5G o quello a 5G, la realtà è che chi innova sono altri, ovverosia i produttori di tecnologia coreani e americani, con le reti testate e sviluppate altrove, mentre da noi arrivano come abiti confezionati da rivendere in negozio: non esattamente un esempio di alta sartoria.

Veniamo alle rimodulazioni. Sono state tante e sono durate anni, in maniera selvaggia. Tanto da ingenerare una vera e propria crisi di fiducia nei consumatori. La scoperta è che “per sempre” o “Prezzo bloccato” in realtà non vogliono assolutamente dire questo e che le offerte spesso e volentieri non vengono rispettate.

Il problema di fiducia delle compagnie telefoniche

Questo comporta un crescente senso di sfiducia da parte dei consumatori e una rapida fuga verso altre offerte e altre promozioni, alzando il tasso di infedeltà in maniera apparentemente esagerata ma che, se si volesse guardare le cose con maggiore equità, è paragonabile alla mancanza di fedeltà e capacità di mantenere la loro stessa parola delle telco.

L’articolo 70 comma 4 e seguenti modifiche della normativa che copre le telco è quello che permette alle telco di rimodulare le tariffe. Spostando la tariffazione da 4 settimane (28 giorni) a un mese solare ma aumentando il totale del costo, senza cioè un effettivo adeguamento a vantaggio di chi ha sottoscritto una tariffa, oppure le costanti modifiche unilaterali dei contratti sottoscritti.

Fino ad oggi solo l’effetto rivoluzionario di Iliad (che è stata comunque redarguita per la poca chiarezza della sua comunicazione relativa alla disponibilità di gigabyte in roaming europeo e per i 9,99 euro di costo di erogazione e attivazione della sim sia via internet che sul totem) ha scosso il nostro mercato. Magari la tariffa non è la migliore in assoluto, ma come ben sanno molti italiani, è stata bombardata da contro-offerte con pacchetti voce+dati inimmaginabili per le normali tariffe prepagate con addebito su credito residuo o conto corrente.

Iliad: un milione di clienti in un mese, l’offerta a 5,99 euro continuaC’è un altro nodo qui: da un lato, sono tariffe prepagate che funzionano come abbonamento e che si pagano in anticipo (il prelievo è all’inizio del periodo e non alla fine). Perché allora non fare un vero e proprio abbonamento? Semplicemente, perché in Italia si paga una tassa di concessione governativa da 5,16 euro per privati e 12,91 euro per aziende o partite IVA, addebitata sul conto telefonico.

E così, mentre lo Stato non aiuta i consumatori favorendo un mercato di ricaricabili in cui si paga in anticipo, anche la norma a tutela dei consumatori per cui il credito residuo in caso di rescissione è di proprietà del consumatore e non certo della telco, viene aggirato mettendo un inedito “costo di recesso anticipato” addebitato se la SIM non funziona per 24 mesi o per il trasferimento da un operatore all’altro (in questo caso, viene pagato dal nuovo operatore ma alle volte parte del costo è fatto ricadere sull’utente finale).

Insomma, in una fase di grande integrazione fisso mobile e di trasformazione del mercato con l’arrivo del 5G, con la telefonia mobile che diventa sempre più servizio universale ma anche strumento di connettività di base per esercitare i propri diritti di cittadinanza, in un momento in cui finalmente si può fare mercato unico in Europa e circolare senza dazi e gabelle con il proprio telefonino per fare meglio business, più turismo, più vita sociale all’interno dell’Unione, ecco che le telco italiane se ne inventano una più del diavolo per cercare di succhiare fino all’ultimo soldo disponibile agli utenti.

Possono poi lamentarsi dell’infedeltà dei propri clienti? Secondo noi, no.

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