Harry Potter contro eBay, uno a zero

Uno dei problemi del mondo di bit, le cui leggi della fisica sono alquanto diverse da quello del mondo degli atomi, è che le leggi pensate e consolidate da secoli di esperienza empirica non si applicano tanto facilmente. Mettete per esempio il caso di JK Rowlings contro eBay. La famosissima (e ricchissima) scrittrice britannica autrice dei volumi della saga di Harry Potter, infatti, sta facendo causa dal 2004 ad eBay per una sordida questione di libri venduti in India illegalmente (leggi: senza che lei percepisca il suo diritto d’autore) tramite una controllata della casa d’aste, cioè Baazee.com

Sino ad oggi – giorno in cui eBay ha incassato un secco smacco dal tribunale di New Delhi – la linea di difesa della casa d’aste è che lei non può sapere in ogni momento la storia di ciascuno dei tre milioni di libri che vende in rete. Come potrebbe mai fare? Il tribunale ha detto di no, ma il problema è più profondo.

Infatti, cos’è eBay? Una impresa privata, un sistema di vendita o una piattaforma? Se per piattaforma intendiamo l’idea di un complesso di regole, formati e luoghi virtuali in cui effettuare delle operazioni, più o meno incompatibili con altre regole, formati e luoghi virtuali, ecco che sorge un problema. Perché a un certo punto una piattaforma si impone e diventa uno standard. Il discorso del monopolio o della responsabilità  diventa alquanto difficile.

Per intendersi, Windows di Microsoft, Intel, iPod e iTunes Music Store di Apple, Google, Amazon ed eBay sono piattaforme. I loro sistemi sono, in ambiti diversi, dei veri e propri standard. Hanno le tecnologie (chiuse, ed è giusto: perché si tratta di imprese private, anche se non sempre è un bene); hanno la massa critica di utenti tale che rende in questo momento storico “universale” il loro sistema; hanno la visibilità  mediatica per non abdicare. Certo, alcuni di loro sono accusati di aver perseguito in maniera scorretta l’obiettivo di diventare lo standard di fatto (come ad esempio fu per la causa anti-trust di Microsoft, o per quelle contro Intel attualmente in corso), ma poi anche altre valutazioni entrano in gioco.

Proprio Apple con iTunes e iPod, insieme al discorso di Steve Jobs sulla liceità  o no dei DRM, fanno testo: Apple non ha forzato nessuno per rendere i propri prodotti in ambito iPod-iTunes lo standard di fatto: erano solo molto migliori degli altri. Però, adesso che abbraccia la stragrande maggioranza del mercato, andrebbe artificialmente aperto il segreto aziendale, la formula della Coca-Cola? E se sì per quello di Apple, perché non anche con la tecnologia di Google? La ricerca della casa di Mountain View infatti è pervasiva proprio perché ha le API di programmazione aperte e può essere inserita in qualsiasi sito. Ma il suo vero asset è il database di informazioni raccolte e l’algoritmo che le valuta (e che succhia via il valore dai siti che producono i contenuti). Questo azzera la possibilità  di concorrenza. Perché non dovrebbe essere aperto anche quello ad aziende di concorrenza che costruiscono i loro motori di ricerca?

La situazione è complessa, e la furba JK Rowlings, facendo causa e iniziandone a vincere il primo grado, crea un precedente nei sistemi di Common Law in cui passa l’idea che una delle leggi fatte di atomi funzionino anche nel mondo dei bit: sei responsabile di quel che succede sulla tua piattaforma. E se alla tua piattaforma si applicano le leggi della fisica degli atomi del mondo reale, dove l’anti-trust americano a suo tempo per favorire la crescita economica spaccò la compagnia telefonica Bell che azzerava le possibilità  di concorrenza del mercato, perché non dovrebbe valere anche per i servizi essenziali della rete. Dopotutto, poter vendere e comprare, poter cercare e poter produrre valore con i propri contenuti in questa fase sono elementi essenziali che dovrebbero portare allo sviluppo di una rete più efficiente e ricca, no?

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