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I migliori romanzi dei vincitori del premio Nobel parte seconda

Il premio Nobel per la letteratura, come vedevamo nella prima puntata di questa serie in tre parti, esiste dal 1901 e, a parte alcune edizioni che non si sono tenute causa guerra (e per un paio di rinunce), i suoi 110 vincitori rappresentano uno “spaccato” della letteratura mondiale incredibile.

Certamente, soprattutto nei primi anni del Novecento, la letteratura europea (francese in particolare) e poi quella anglosassone (americana soprattutto) sono state decisamente sovrarappresentate. Ma negli ultimi anni il premio Nobel ha acquisito una caratura sempre più “forte”, facendo della letteratura (romanzi e poesia) uno strumento non solo per conoscere e celebrare il mondo, ma anche per combattere i soprusi e l’oppressione. In ogni caso, letture favolose.

Qui trovate tutti gli articoli con i Migliori libri di Macity raccolti in un’unica pagina.

Gli anni

Come dicevamo nell’introduzione, molti premi Nobel in passato sono stati vinti da autori francesi, la nazione al tempo egemonica dal punto di vista culturale in Europa e nel mondo colonizzato dagli europei. La vittoria del Nobel del 2022 da parte della scrittrice francese Annie Ernaux ha un senso profondamente diverso però: intimistica e al tempo stesso coraggiosa, al passo con i cambiamenti del nostro tempo per “il coraggio e l’acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale”, scrivono nella motivazione al suo premio.

Il suo romanzo più famoso, se non il più bello, è anche quello che ha vinto vari premi. Come accade che il tempo che abbiamo vissuto diviene la nostra vita? È questo il nodo affrontato da questo romanzo autobiografico e al contempo cronaca collettiva del nostro mondo dal dopoguerra a oggi, nodo sciolto in un canto indissolubile attraverso la fusione della voce individuale con il coro della Storia. Annie Ernaux convoca la Liberazione, l’Algeria, la maternità, de Gaulle, il ’68, l’emancipazione femminile, Mitterrand; e ancora l’avanzata della merce, le tentazioni del conformismo, l’avvento di internet, l’undici settembre, la riscoperta del desiderio. Scandita dalla descrizione di fotografie e pranzi dei giorni di festa, questa “autobiografia impersonale” immerge anche la nostra esistenza nel flusso di un’inedita pratica della memoria che, spronata da una lingua tersa e affilatissima, riesce nel prodigio di “salvare” la storia di generazioni coniugando vita e morte nella luce abbagliante della bellezza del mondo.

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Paradiso

Abdulrazak Gurnah ha vinto il premio Nobel nel 2021. Vive nel Regno Unito, ma è tanzanese: nato a Zanzibar è fuggito da giovane in Gran Bretagna per studiare e ha insegnato letteratura inglese post-coloniale. Dopo una serie di fallimenti (romanzi rifiutati) finalmente riesce a farsi pubblicare a quasi quarant’anni senza alcun agente. Da lì, è un’ascesa irrefrenabile della sua potente narrazione che raggiunge il culmine in un romanzo del 1994, la vera chiave del suo successo internazionale.

È la storia di Yusuf che, a dodici anni, viene dato in pegno dal padre, un locandiere pieno di debiti, a zio Aziz, un ricco mercante. Nel fermento della città, tra swahili, musulmani d’Africa, colonizzatori tedeschi, camionisti sikh, Yusuf ha il suo rifugio nel giardino paradisiaco al centro della casa. È la storia dell’amicizia con Khalil, poco più grande di Yusuf, anche lui comprato da zio Aziz. È anche la storia dell’amicizia interrotta tra i due ragazzi, quando zio Aziz chiede a Yusuf di accompagnarlo in un viaggio d’affari nell’entroterra. È la storia della scoperta dell’amore di Yusuf, cresciuto, bellissimo, nella casa in cui viene educato. E diventa una lezione su come gli amori, soprattutto quelli proibiti, finiscono all’improvviso. È la storia del sultano Chatu che, nella città di Marungu, fa prigioniero Yusuf e i suoi, e li priva di ogni avere. Ma la prima guerra mondiale è alle porte, gli eserciti europei stanno conquistando il continente, e inizierà tutta un’altra storia per l’Africa, per le sue genti, per Yusuf. Un romanzo d’avventura, di formazione, di scoperta, che racconta un mondo alle soglie della sua definitiva trasformazione, dove si intrecciano favole, leggende, cruda realtà, poesia, amore.

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L’iris selvatico

Un premio Nobel nel 2020 a una poetessa americana che ha insegnato per tutta la vita a scrivere poesie a Yale e che ha pubblicato dodici antologie: la grandezza passa dalla sintesi e lei vince “per la sua inconfondibile voce poetica che con l’austera bellezza rende universale l’esistenza individuale”. Figlia di ebrei ungherese, nata nel 1943 a Long Island, Louise Glück è la perfetta rappresentazione del melting pot di quella parte degli Stati Uniti che viene chiamata informalmente New England.

Di dodici raccolte di poesie di Louise Glück una vale la pena di essere letta anche se non amate la poesia. Dall’introduzione: “È il tramonto e noi, a occhi aperti, guardiamo un giardino, verde e rigoglioso. Ascoltiamo il suono del vento che agita un campo di margherite. Osserviamo le foglie rosse di un acero: cadono persino in agosto, nel primo buio. Guardiamo laggiù: un bocciolo di rosa selvatica comincia a schiudersi, come un cuore protetto. Nel New England di Louise Glück, l’estate è breve e ogni fiore ha la sua voce, dolce e discreta; la stessa della poetessa, che qui canta caducità ed eternità, bellezza e morte, cura e indifferenza: il flusso del tempo che scorre, il flusso delle emozioni che scorrono sulla nostra pelle, in ogni giorno, in ogni attimo sfuggente della nostra vita”.

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Prima del calcio di rigore

Controverso. Questa la miglior definizione del premio Nobel assegnato nel 2019 a Peter Handke, giornalista e scrittore, sceneggiatore e poeta. Ma anche regista. L’autore austriaco vince “per un lavoro influente che con ingegnosità linguistica ha esplorato la periferia e la specificità dell’esperienza umana”. Ma le sue idee politiche, di contestatore radicale, lo hanno portato al centro di varie polemiche soprattutto per la vicinanza al popolo e alla politica serba.

La sua scrittura come autore è densa e minimalista. La cosa più nota al grande pubblico, anche perché ne è stato tratto un film è un romanzo particolare, in cui il calcio è solo una scusa per parlare d’altro. Licenziato improvvisamente dal lavoro in cantiere, l’ex portiere di calcio Josef Bloch inizia a vagare per le strade di Vienna, va al mercato, al cinema, allo stadio, poi cerca una camera d’albergo per la notte. I suoi sensi sono allerta, tutto lo infastidisce e allo stesso tempo cerca disperatamente un contatto, prova a chiamare dei conoscenti senza trovare nessuno. La sua peregrinazione continua finché incontra una donna disposta a stare con lui. Ma poi la uccide, senza motivo. L’angoscia che lo attanaglia dopo l’omicidio è la stessa che provava quando da portiere si preparava a respingere un calcio di rigore. Tenta allora la fuga verso il confine, sentendosi braccato, spiato e sospettando di tutti, cercando di prevedere le mosse dell’avversario.

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I vagabondi

Causa pandemia il premio Nobel del 2018 viene assegnato solo nel 2019. Lo ottiene Olga Tokarczuk “per un’immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita”. Lei è una scrittrice polacca, arrivata all’ambito riconoscimento relativamente giovane (a 57 anni) dopo una carriera straordinaria, piena di riconoscimenti per i suoi romanzi acclamati da pubblico e critica, come si dice, che hanno toni lirici e una scrittura che sconfina nel misticismo. Famosissima in Polonia, Tokarczuk è ben nota anche in Italia grazie a un costante lavoro di traduzione suggerito anche dai vari premi internazionali vinti (tra i quali il Man Boooker International).

La narratrice che ci accoglie all’inizio di questo romanzo confida che fin da piccola, quando osservava lo scorrere dell’Oder, desiderava una cosa sola: essere una barca su quel fiume, essere eterno movimento. È questo spirito-guida che ci conduce attraverso le esistenze fluide di uomini e donne fuori dell’ordinario, come la sorella di Chopin, che porta il cuore del musicista da Parigi a Varsavia, per seppellirlo a casa; come l’anatomista olandese scopritore del tendine di Achille che usa il proprio corpo come terreno di ricerca; come Soliman, rapito bambino dalla Nigeria e portato alla corte d’Austria come mascotte, infine, alla morte, impagliato e messo in mostra; e un popolo di nomadi slavi, i bieguni, i vagabondi del titolo, che conducono una vita itinerante, contando sulla gentilezza altrui. Come tanti affluenti, queste esistenze si raccolgono in una corrente, una prosa che procede secondo un andamento talvolta guizzante, come le rapide, talvolta più lento, come se attraversasse le vaste pianure dell’est, per raccontarci chi siamo stati, chi siamo e forse chi saremo: individui capaci di raccogliere il richiamo al nomadismo che fa parte di noi, ci rende vivi e ci trasforma, perché “il cambiamento è sempre più nobile della stabilità”.

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Quel che resta del giorno

Nonostante il nome possa far pensare che sia giapponese, in realtà Kazuo Ishiguro è di nazionalità britannica. La sua famiglia si trasferì nel Regno Unito quando aveva sei anni e lui è cresciuto sostanzialmente più inglese che non giapponese: scrive da sempre infatti in lingua inglese. La sua è una scrittura importante, profonda, estremamente umana, tramite la quale, “in romanzi di grande forza emotiva, ha scoperto l’abisso sotto il nostro illusorio senso di connessione con il mondo”. Vinse l’edizione 2017 del premio Nobel e il romanzo che lo ha reso celebre è stato anche tradotto in un film con Anthony Hopkins ed Emma Thompson.

La prima settimana di libertà dell’irreprensibile maggiordomo inglese Stevens diventa occasione per ripensare la propria vita spesa al servizio di un gentiluomo moralmente discutibile. Stevens ha attraversato l’esistenza spinto da un unico ideale: quello di rispettare una certa tradizione e di difenderla a dispetto degli altri e del tempo. Ma il viaggio in automobile verso la Cornovaglia lo costringe ben presto a rivedere il suo passato, cosi tra dubbi e ricordi dolorosi egli si accorge dì aver vissuto come un soldato nell’adempimento di un dovere astratto senza mai riuscire ad essere se stesso. Si può cambiare improvvisamente vita e ricominciare daccapo?

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Bob Dylan Lyrics 1961-1968

L’edizione del 2016 del premio Nobel fu uno shock per molti perché a vincere non fu un poeta in senso tradizionale ma un cantautore e musicista: Bob Dylan. In realtà la carriera artistica di Dylan è stata molto più complessa: scrittore, poeta, pittore, Rober Allen Zimmerman (il nome venne cambiato legalmente) è stato molte cose e, a differenza del nostro Dario Fo, ha vinto il premio Nobel “per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”. La motivazione del premio Nobel riconosce in pratica il valore poetico dei testi delle canzoni, “chiudendo” una antichissima polemica tra i critici della letteratura che dibattono l’argomento se un cantautore possa essere considerato anche un poeta.

Dylan ha vinto praticamente di tutto: dai Grammy Award al Polar Music Prize, ma anche l’Oscar per una colonna sonora, il Pulitzer, la National Medal of Arts e la Presidential Medal of Freedom, oltre alla Legione d’Onore in Francia. In Italia Feltrinelli ha pubblicato i testi delle sue canzoni in tre volumi (dal 1961 al 2020) a cura di Alessandro Carrera, che oltre alle traduzioni ha realizzato l’apparato critico e l’organizzazione cronologica. Meritano tutti e tre i volumi (decisamente “grandi”), magari con un abbonamento a un servizio streaming che permetta di sentire le canzoni (o con una collezione di vinili monumentali con cui passare il tempo).

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La guerra non ha un volto di donna: L’epopea delle donne sovietiche nella Seconda Guerra Mondiale

Svjatlana Aleksievič, giornalista e scrittrice bielorussa ma nata in Ucraina, a vince il premio Nobel nel 2015 “per la sua opera polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo”. Ha seguito i principali eventi dell’Unione sovietica: dalla guerra in Afghanistan al disastro di Cernobyl sino alla dissoluzione dell’Urss e alle fasi successive dell’evoluzione della Russia post-comunista. Il suo è un racconto che non si limita ad essere una cronaca, ma si porta anche nel campo della letteratura, tanto da farla ritenere una delle maggiori scrittrici a livello mondiale. Esclusa dai libri di storia bielorussi e censurate alcune delle sue opere, del ruolo della sua patria Bielorussia dell’invasione russa in Ucraina ha detto che “fornire un territorio a un paese aggressore non è altro che complicità in un crimine”.

Un libro straordinario, per rileggere una pagina drammatica della storia planetaria da una prospettiva diversa, è quello che racconta l’epopea delle donne sovietiche durante la seconda guerra mondiale.

Se la guerra la raccontano le donne, quando prima l’hanno raccontata solo gli uomini, se a farla raccontare è Svetlana Aleksieviéc, se le sue interlocutrici avevano in gran parte diciotto o diciannove anni quando, perlopiù volontarie, sono accorse al fronte per difendere la patria e gli ideali della loro giovinezza contro uno spietato aggressore, allora nasce un libro come questo. 22 giugno 1941: l’uragano di ferro e fuoco che Hitler ha scatenato verso Oriente comporta per l’URSS la perdita di milioni di uomini e di vasti territori e il nemico arriva presto alle porte di Mosca. Centinaia di migliaia di donne e ragazze, anche molto giovani, vanno a integrare i vuoti di effettivi e alla fine saranno un milione: infermiere, radiotelegrafiste, cuciniere e lavandaie, ma anche soldati di fanteria, addette alla contraerea e carriste, genieri sminatori, aviatrici, tiratrici scelte. La guerra “al femminile”, dice la scrittrice, “ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti e anche parole sue”. Lei si è dedicata a raccogliere queste parole, a far rivivere questi fatti e sentimenti, nel corso di alcuni anni, in centinaia di conversazioni e interviste. Cercava l’incontro sincero che si instaura tra amiche e quasi sempre l’ha trovato: le ex combattenti e ausiliarie al fronte avevano serbato troppo a lungo, in silenzio, il segreto di quella guerra che le aveva per sempre segnate.

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Via delle Botteghe Oscure

Il premio Nobel vinto da Patrick Modiano, scrittore e sceneggiatore francese, nel 2014 è un premio “per l’arte della memoria con la quale ha evocato i destini umani più inafferrabili e scoperto il mondo della vita dell’occupazione”. Modiano forse è il prototipo di un “vecchio Nobel”: non per l’età ma per lo spirito molto eurocentrico con il quale è stato scelto, e per quello che la sua storia (francese di origini ebraico-italiane) rappresenta. Scrive con vena disperata di ascendenza esistenzialista e il gusto della rievocazione, soprattutto storie ambientate durante la Seconda guerra mondiale e il nazismo. Ma il primo riconoscimento arriva con un romanzo “italiano”.

“Gente strana, che al passaggio lascia solo una scia di nebbia che prontamente svanisce. Con Hutte chiacchieravo spesso di questi esseri di cui le orme si perdono. Nascono un bel giorno dal nulla e al nulla ritornano dopo un fugace brillio. Reginette di bellezza, gigolos, farfalle. La maggior parte, anche da vivi, non avevano più consistenza di un vapore destinato a non condensarsi mai”. Chi parla è Pedro McAvoy Stern, protagonista-narratore del romanzo ambientato a Roma con il quale Modiano vinse nel 1978 il Premio Goncourt. Hutte è il responsabile di una Agenzia di Investigazioni nella quale il narratore ha lavorato per alcuni anni: ora è stanco, lascia l’agenzia e si trasferisce a consumare la sua vecchiaia a Nizza. Pedro McAvoy Stern è un uomo che alcuni anni prima, per colpa di una amnesia, non sa più chi è. Gli “esseri di cui le orme si perdono” sono il suo passato. L’agenzia è chiusa. Lui può cominciare a investigare su se stesso.

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Nemico, amico, amante

Alice Munro l’abbiamo già incontrata in altre pagine di Macity. Ha vinto il premio Nobel nel 2013 ed è considerata dall’Accademia di Svezia oltre che dalla critica mondiale la “maestra del racconto breve contemporaneo”. Canadese, le sue storie sono perlopiù ambientate nel sudovest dell’Ontario, e usa uno stile semplice per toccare tematiche profonde e complesse che hanno a che fare con l’esperienza umana. Sensibilità enorme, capacità di sparire all’interno della sua scrittura, una narrazione che si sposta continuamente dal passato al futuro: sono queste le cifre distintive dell’autrice di Wingham. Capace di vivere di scrittura, come capita solo nei paesi anglosassoni, i suoi racconti sono stati pubblicati su riviste come il New Yorker, l’Atlantic Monthly, Grand Street, Mademoiselle, e la Paris Review. Dopo aver vinto il premio Nobel la scrittrice canadese ha annunciato il suo ritiro dalla scrittura.

Le sue quindici raccolte di racconti sono tutte belle. Tra le altre, lo è ancora di più questa: qui Munro conferma le sue qualità narrando una manciata di esistenze dove avvenimenti inattesi o particolari dimenticati modificano il corso delle cose. Una cameriera dai capelli rossi, nuova arrivata in una vecchia dimora, viene per caso coinvolta nello scherzo di una ragazzina. Una studentessa universitaria si reca per la prima volta in visita a un’anziana zia e, riconoscendo un mobile di famiglia, scopre un segreto di cui non era a conoscenza. Una paziente giovane e in fin di vita trova un’inaspettata speranza di proiettarsi nel futuro. Una donna ricorda un amore brevissimo e che tuttavia ha modificato per sempre il suo vivere.

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La città dei libri sognanti

Non potrebbe essere la lista dei migliori libri di Macity se non ci fosse un fuorisacco, una sorpresa a cui guardare. In questo caso un libro per ragazze e ragazzi dai dieci anni in su di Walter Moers, che il premio Nobel non l’ha mai vinto (e non corre neanche il rischio) ma forse qualcosa da raccontare ce l’ha: questo libro è ambientato in un mondo fantastico e magico, Zamonia, che fa da sfondo a varie opere dello scrittore, sceneggiatore e fumettista tedesco. In questo caso, è una storia dove i libri hanno un ruolo centrale nella vita delle persone. Il protagonista, Hildegunst von Mythenmetz, è uno scrittore alla ricerca di un manoscritto leggendario che potrebbe guadagnargli il prestigioso Premio Nobel per la Letteratura di Zamonia. La storia esplora l’importanza della scrittura, della lettura e dell’amore per i libri, con un tocco di avventura e mistero.

“Questa è una storia su un luogo in cui leggere è ancora un’avventura. Qui si parla di un luogo dove, a leggere, si rischia d’impazzire. Dove i libri possono ferire, avvelenare e perfino uccidere. Solo chi, pur di leggere, sia veramente disposto a correre simili rischi, solo chi sia pronto a giocarsi la pelle pur di conoscere la mia storia, mi segua e volti la pagina.” (Ildefonso de Sventramitis)

L’ammonimento di Ildefonso de’ Sventramitis la dice lunga su questo nuovo romanzo ambientato a Zamonia. Il famoso dinosauro Poeta, ancora giovane, modesto (più o meno) e simpatico, ci conduce in un viaggio alla volta di Librolandia, per risolvere il mistero del manoscritto perfetto lasciatogli in eredità dal suo padrino. La leggendaria città sembra un’immensa libreria antiquaria, ma in realtà è piena zeppa di pericoli, mostri feroci e libri dotati di vita propria. Qui incontreremo l’alter ego zamoniaco di Lovecraft, ma anche di William Shakespeare, Edgar Allan Poe, Oscar Wilde, Honoré de Balzac, Johann Wolfgang von Goethe e tanti altri, e risolveremo il mistero dell’ispirazione poetica. Tra Blade Runner, Fahrenheit 451 e Matrix, un universo bizzarro e geniale che solo una mente come Walter Moers poteva inventare. Un videogame impazzito, frutto di una immaginazione sfrenata e di amore per la letteratura.

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