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Photoshop: 30 anni nella storia dell’informatica e del costume

Se vi state chiedendo come potevamo fare una volta quando non c’era Photoshop, vuol dire che o siete molto vecchi oppure che avete una forte inclinazione per la speculazione. Perché il software creato nel 1987 da due fratelli, Thomas e John Knoll, e successivamente commercializzato a partire dal 1990 da Adobe su licenza con la mitica versione Photoshop 1.0 che stava tutta su un floppy da 3.5 pollici dedicato al Macintosh (sulla cui piattaforma era stato immaginato e programmato tre anni prima con il nome iniziale di “Display”) ha compiuto trent’anni. E in trent’anni c’è chi è diventato cresciuto e diventato famoso senza aver mai vissuto un singolo giorno della sua vita su un pianeta senza Photoshop.

Il software californiano di editing di immagini raster ha avuto varie incarnazioni, forme, modelli, scopi e usi. Adobe l’ha modellato come creta intanto che trasformava il suo modello di business. E nonostante nel tempo l’azienda di San Jose nel cuore della Silicon Valley abbia più volte tentato di far passare altri marchi e altri prodotti davanti, magari nella forma di “suite creative”, quello di Photoshop è rimasto un clamoroso prodotto di immagine che dà una awarness paragonabile forse a quella della Coca-Cola.

In quasi tutte le lingue del mondo si dice “photoshoppare” (pronuncia italiana rigorosamente con la “f” e la “sc”, “fotoscioppare)” per indicare l’atto di trasformare digitalmente una immagine. Potenziandola, rendendola più bella o più brutta, aggiungendo o togliendo di solito nelle copertine dei giornali, quando appaiono attributi significativi alla modella di turno e scompaiono difetti e problemi della maliarda del momento, o quando i politici sembrano sempre più giovani e irsuti di quanto l’anagrafe e una ispezione dal vero non riconoscerebbero.

Trent’anni di PhotoshopPhotoshop forse solo oggi sta perdendo un po’ di questo suo ruolo centrale nell’immaginario, facendo passare avanti l’immagine in movimento delle fake news e delle manipolazioni digitali sempre più importanti fatte non più dalla perizia dell’artigiano digitale che ha imparato a smanettare sul software usando mouse, tavoletta grafica, pennetta digitale e mille altri accorgimenti.

Quella del photoshoppista è infatti una professione seriamente a rischio di obsolescenza a causa del pieno di intelligenze artificiali che non solo vengono allenate, riconoscere i volti, ma anche a gestire il lazo con indifferenza, facendo scontorni in tempo reale precisi fino all’ultimo capello, gestendo livelli, tamponi, mascherature.

Tutto questo nasce da Photoshop, dal gergo che ha saputo creare, ma anche dalla posizione centrale che ha avuto nell’immaginario. È uno dei pochi programmi per la creatività che è stato anche alla portata di tutti (nel senso che tutti quelli che hanno un computer e almeno una fotografia digitale da ritoccare hanno prima o poi rischiato di usarlo, certamente in versione pirata visto i prezzi da prodotto “pro”), e certamente ha fatto buona parte della rivoluzione digitale della Apple con il suo Mac, le sue interfacce grafiche e il suo mouse.

Negli anni Photoshop è stato copiato, usato e abusato ancora più di Excel, altro software usato spesso a sproposito. Così, mentre Photoshop veniva scaricato o comprato per fare semplici ritagli e cambi di formato delle immagini, o magari semplici aggiustamenti delle curve di livello (cose che magari si fanno meglio con Aperture o con utility molto più semplice, su macOS addirittura con Anteprima), così Excel si è trasformato in un database per tutti, forzando ai limiti la sua natura di foglio di calcolo e trasformandolo in un obbrobrio programmabile usato anche per mandare le email (come una nota legge dello sviluppo del software prevede).

Trent’anni di Photoshop

Photoshop è invece il software che ha legato la sua vita alla fortuna di Adobe, o forse è vero il contrario e per lunghi momenti della sua storia Adobe ha legato la sua vita alla fortuna di Photoshop, comunque elemento centrale della Creative Suite e oggetto misterioso sbarcato anche su tablet e telefonini.

Pochi ricordano però che molte delle cose “strane” di Photoshop, come i livelli, i retini, i pennelli, gli strumenti per il ritaglio e altro non sono invenzioni dei fratelli Knoll ma veri e propri scheumorfismi concettuali, anzi analogie per catturare il primo pubblico professionale che doveva imparare l’uso di questo strumento.

Chi infatti faceva fotoritocco erano i grafici o i camera-oscuristi, che sviluppavano e “lavoravano” le foto in camera oscura. Stiamo parlando di foto scattate con macchine a pellicola, intendiamoci. E alla faccia di chi ritiene in maniera hipster che la foto a pellicola sia “genuina” e “immodificabile”, quindi “vera” dovrebbe fare un salto indietro di una trentina di anni e vedere come gli operatori della camera oscura massaggiassero lo sviluppo e la stampa delle immagini.

Trent’anni di Photoshop

Sofisticate manipolazioni, in alcuni casi ancora più naturalistiche di quelle straordinarie che si possono fare con gli strumenti digitali. Però era stato proprio il desiderio dei Knoll e poi di Adobe di mantenere intatto quel set di metafore da camera oscura – equivalente se vogliamo al set di metafore da ufficio che caratterizza l’interfaccia a finestre fatta di “scrivania”, “cartelle”, documenti“ e ”cestino” – a rendere così arcaico e complesso l’uso di Photoshop.

Sì perché è molto recente l’arrivo di altri tipi di software che sistematicamente smontano le metafore e il flusso di lavoro di Photoshop, proponendo altri paradigmi di quella che alla fine è banalmente una manipolazione di sequenze di numeri, cioè i bit che compongono una immagine.

Eppure, la presa di Photoshop è talmente forte da durare ancora con così tanta forza dopo tanti anni. E con tutta probabilità andrà avanti ancora per un bel po’.

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