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Chi è Johny Srouji, genio sconosciuto, papà dei processori di iPhone e iPad

Apple stava per lanciare iPad Pro con un processore meno potente di quello di iPhone 6s. È questo uno degli episodi di un un lungo articolo che Bloomberg Business dedica a Johny Srouji, senior vice president responsabile dell’hardware in Apple. È in poche parole l’uomo che si occupa della divisione che crea i processori, i pezzi di silicio integrati in iPhone, iPad, Apple Watch e Apple TV, forse il più importante dei meno conosciuti protagonisti della rivoluzione che la Mela ha condotto in questi anni.

Srouji, 51 anni, è l’uomo che guida dall’alto la divisione che si occupa dei processori in Apple. Parla arabo, ebraico e francese ed è arrivato a Cupertino nel 2008 dopo lavori in Intel e IBM. “I chip architect di Apple sono artisti e gli ingegneri dei maghi” spiega rispondendo ad alcune domande del redattore di Bloomberg Business che ha passato alcuni giorni nelle strutture che si occupano dei chip a Cupertino (California) e Herzliya (Israele).

Quando fu creato il primo iPhone nel 2007, Steve Jobs conosceva i limiti del dispositivo: non aveva fotocamera frontale, offriva poca durata della batteria, lente connessioni 2G ed era sottodimensionato rispetto a quello che avrebbe voluto. Un ingegnere che in passato ha lavorato per Apple spiega che benché si trattasse di una tecnologia rivoluzionaria, questa era limitata dai componenti di vari fornitori che Apple era costretta a sfruttare, inclusi elementi che Samsung usava per i lettori di DVD. “Steve concluse che l’unico modo che aveva Apple di differenziarsi era creare qualcosa di veramente unico e grandioso, creando da soli il processore necessario per gestire il tutto”.

Uno dei consiglieri fidati di Jobs, Bob Mansfield, all’epoca top dirigente responsabile dell’hardware, reclutò Srouji per occuparsi dell’impresa. Srouji, allora in IBM, era una stella nascente nell’arcano mondo dell’ingegnerizzazione dei semiconduttori. Mansfield lo convinse offrendogli l’opportunità di costruire qualcosa da zero.

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Progettare semiconduttori è ovviamente rischioso. È il componente più importante in un dispositivo e la progettazione non ammette errori (eventuali problemi non si possono risolvere con aggiornamenti software). Quando Srouji arrivò in Apple, quest’ultima aveva 40 ingegneri che si occupavano dell’integrazione dei chip dentro all’iPhone. Nell’aprile del 2008 il gruppo di persone arrivò a 150 con l’acquisizione di P.A. Semi, una startup californiana che si occupava di chip e che catturò l’interesse di Apple per alcune tecnologie di risparmio energetico. Il team di Srouji interagisce sistematicamente con gli altri dipartimenti, da quelli che si occupano di sviluppo software che chiedono nuove funzionalità a quelli che si occupano di design, alla ricerca di nuovi modi per creare prodotti più sottili ed eleganti.

I primi frutti del lavoro di Srouji furono i SOC integrati nel primo iPad e nell’iPhone 4. Il processore in questione, l’A4, era basato su un generico design di ARM Holdings, l’azienda britannica che non produce processori, ma offre in licensing la sua architettura. L’A4 era pensato per gestire il display Retina, una sfida per un system-on-chip dell’epoca. “L’aeroplano stava prendendo quota” spiega Srouji, “ed io avevo terminato di costruire la pista giusto in tempo”.

Negli anni seguenti nell’iPhone sono arrivate migliorie come il chip per il riconoscimento delle impronte digitali, le videochiamate e Siri. Dirompente fu l’arrivo dell’A7, primo SoC a 64 bit, inizialmente sottovalutato dalla concorrenza ma presto rivelatosi una mossa straordinaria, che costrinse gli altri a comprendere di essere indietro e adeguarsi.

64 bit

Srouji è nato ad Haifa, città portuale nel Nord di Israele. È il terzo di quattro figli. La sua famiglia è araba cristiana, una minoranza nello stato ebraico. “Haifa è una delle città più integrate in Israele” dice Srouji; “Abbiamo cristiani, musulmani, ebrei, le comunità bahai, tutte le religioni che volete e tutti vivono insieme pacificamente. L’integrazione, per me funziona”.

Il padre di Srouji era proprietario di un’attività che produce arabescati in metallo e sin da quando aveva dieci anni, l’uomo che ora lavora per Apple passava i weekend e l’estate aiutando a mettere insieme schemi con le modanature in legno che vengono utilizzate per creare alcune parti di motori, attrezzature mediche e altri macchinari. Suo padre adottava una particolare filosofia: anziché chiedere di più, offriva sconti ai clienti che proponevano lavori difficili, e un sovrapprezzo per i lavori troppo facili. “Se bisognava fare qualcosa di molto complesso, che non aveva mai fatto, voleva farlo” ricorda Srouji.

Il padre, che è morto nel 2000, gli ricordava costantemente di non prendere troppo sul serio l’idea di lavorare nell’attività di famiglia e che l’istruzione era importante. Alle superiori, Srouji otteneva il massimo dei voti in matematica, fisica, chimica e scienze. Al mondo dei computer fu introdotto da un istruttore che, tra le altre cose, insegnava al vicino Technion Israel Institute of Technology, una delle più importanti facoltà d’ingegneria del mondo. “M’innamorai” dice Srouji.

Si iscrisse al Technion passando le notti nei laboratori di informatica a redigere codice scritto prima a matita, laureandosi e specializzandosi in computer science. La tesi di dottorato era sulle nuove tecniche per testare sistemi hardware e software. “All’epoca era una ricerca molto avanzata” racconta Orna Berry, general manager del centro di eccellenza EMC in Israele e vice presidente corporate responsabile delle innovazioni che ebbe modo di conoscere Srouji al Technion. “Non mi sorprende che sia dove è ora”.

Dopo la laurea, Srouji trovò lavoro in IBM che ha a Haifa i centri di ricerca più grandi all’infuori degli Stati Uniti, anche per attrarre i cervelloni che arrivano dal Technion e da altri istituti israeliani. Si è occupato brillantemente di ricerche nel campo dei sistemi distribuiti, una tipologia di sistema informatico costituito da un insieme di processi interconnessi tra loro in cui le comunicazioni avvengono esclusivamente tramite lo scambio di messaggi. “Quando gli affidavo un incarico e nel giro di pochi giorni il tutto era completo e perfetto”, dice Oded Cohn, primo boss di Srouji, “a volte mi sono chiesto se era brillante o semplicemente non aveva dormito la notte. In alcuni casi le conclusioni erano sia l’una, sia l’altra”.

Il conflitto arabo-israeliano non è mai stato parte del mondo di Srouji. Cohn, che è rimasto suo amico, dice che la loro diversa provenienza non è mai stata un problema. “I tecnici trattano i loro pari in base alla personalità e alle loro abilità”. “Non ci pensi. Lavori semplicemente insieme. Il resto svanisce”.

Nel 1993 Srouji lascia IBM per Intel per conto della quale ha elaborato una tecnica per eseguire simulazioni che consentono di verificare la forza nel design di semiconduttori. Durante una visita negli USA, nel 1999, nel corso di un viaggio in auto con un collega, l’israeliano Uri Weiser, questo fece pressioni per convincerlo a lavorare per tre anni nel research hub di Intel ad Austin.

Uno degli episodi più interessanti tra quelli raccontati nel servizio, scritto in diversi giorni tra la California e Israele, riguarda la storia del processore di iPad Pro cui abbiamo fatto cenno all’inizio. Il tablet originariamente doveva essere pronto per la primavera dello scorso anno, ma tutte le componenti erano in ritardo. Progressivamente il lancio iniziò a scivolare, ma c’era un rischio: che arrivasse sul mercato assieme ad iPhone 6s con un processore, A8X che era lo stesso di iPad Air 2, meno nuovo (e potente) di quello di iPhone 6s. Fu in quel momento che Srouji fu costretto a mettere al lavoro il suo team per anticipare il lancio di A9X che originariamente doveva debuttare più avanti nel corso di quest’anno. In questo modo Apple ebbe uno strumento di marketing per proporre il suo tablet al pubblico dei professionisti.

Nella parte finale si fa anche cenno all’antica e dibattutissima questione dei processori che Apple potrebbe produrre per i computer. L’ingegnere Apple non si sbilancia, ovviamente, ma lancia un indizio: «Se dovessimo decidere di fare tutto quello che si fa sulla terra, non credo sarebbe una saggia decisione».

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