Un chatbot non interessa alla gente. O forse sì? Fino a poco tempo fa, ai piani alti di Cupertino, la risposta era netta: i chatbot come ChatGPT e Gemini sono una curiosità tecnica, non una necessità reale. Ma oggi quella stessa domanda è tornata a ronzare nella testa dei manager Apple con una tale insistenza che, in uno dei laboratori della Mela, è stato allestito un team incaricato di costruire un prototipo di piattaforma capace di fare proprio quello che fanno i chatbot conversazionali.
A spiegarci le ragioni e lo spirito del cambio di rotta è Mark Gurman nella sua newsletter Power On. E se le informazioni riportate fossero corrette, non si tratterebbe certamente di una correzione da poco.
Dalla negazione al dubbio
Per capire la portata dell’evento basta pensare a cosa è oggi Apple Intelligence. Il sistema non nasce per rispondere a dubbi o creare contenuti nella maniera più propria ma per supportare altre applicazioni: applica riassunti alle notifiche, crea Genmoji, si occupa di traduzioni, pulisce foto e riscrive testi.
Questa identità risiede nella convinzione dei manager Apple che chi usa un prodotto Apple vuole strumenti che risolvano problemi concreti, non un sistema che svolga conversazioni generiche.
Un’altra ragione di questa scelta, che ha limitato le funzioni dell’AI di Apple, è il patto per la ricerca stretto con Google, che paga ogni anno circa 20 miliardi di dollari per restare il motore predefinito su iPhone e iPad.
Affidare a un chatbot le risposte alle domande degli utenti avrebbe significato, per Apple, tagliare un cordone economico da 20 miliardi l’anno. Troppo rischioso, almeno finché l’accordo con Google resta in piedi.
I rischi della rinuncia
Ma nel frattempo, fuori da Cupertino, il mondo si muoveva. ChatGPT, Gemini e Perplexity conquistavano centinaia di milioni di utenti che li usano non per giocare con la scrittura, ma per cercare informazioni, gestire fogli di calcolo, creare sintesi per studiare e lavorare.
E per quanto riguarda l’accordo con Google, potrebbe pensarci, volenti o nolenti, il Dipartimento di Giustizia americano a mettere un punto fermo. Se un giudice desse ragione al DOJ, che ritiene il patto anticoncorrenziale, i 20 miliardi volerebbero via da soli.
Infine c’è anche un problema di immagine: Siri continua a deludere. Da sola non fornisce alcun aiuto reale ed è ancora ben distante da farlo. L’assistente gestisce semplici richieste ma tutto il resto finisce per essere delegato a ChatGPT con un’interfaccia ridotta all’osso. Ancora più frequentemente, come dice Gurman, si limita a rimandare l’utente a una generica ricerca su Google, cosa ancora più fastidiosa quando ci si trova su dispositivi senza schermo.
La svolta
Proprio per evitare di restare dipendente da scelte altrui, Apple ha così deciso di intervenire. È nato così un nuovo team interno chiamato AKI – Answers, Knowledge and Information – guidato da Robby Walker (già responsabile di Siri che fece un clamoroso mea culpa sui limiti dell’assistente vocale), il cui compito dovrebbe essere quello di creare un sistema in grado di rispondere a domande generali, cercando direttamente sul web, e restituendo risultati attraverso una logica conversazionale.
A Cupertino, dice ancora Gurman, stanno arrivando specialisti in motori di ricerca, algoritmi, linguistica computazionale, messi al lavoro su un sistema che potrebbe sfociare in un’app dedicata, nuovi backend per Siri e l’integrazione futura in Safari e Spotlight.
Come dice lo stesso Gurman, il traguardo potrebbe essere ancora lontano, ma la rotta è tracciata: Apple si sta preparando a costruire, con i suoi tempi e i suoi criteri, una propria forma di ricerca conversazionale, più essenziale, più integrata, e soprattutto, profondamente sua.












