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Builder.ai, il grande bluff dell’AI indiana

C’era una volta un’intelligenza artificiale che si chiamava Natasha. Era brava e simpatica. Soprattutto molto brava. Natasha prometteva di rendere la programmazione facile come ordinare una pizza: bastava descrivere quello che si voleva e lei, con la sua magia digitale, avrebbe sfornato app perfette senza che nessuno dovesse sporcarsi le mani con il codice.

Praticamente il glovo delle app: clicchi e ti arriva tutto a casa, senza fatica. Bello, no? Milioni di investitori ci hanno creduto, versando collettivamente 450 milioni di dollari nelle casse di Builder.ai per rendere reale questo sogno. Il problema è che Natasha non esisteva: dietro la sua voce suadente c’erano Rajesh, Priya, Sunil e altri duecento programmatori in carne e ossa, che lavoravano giorno e notte per mantenere viva l’illusione.

La storia, ma sarebbe meglio dire il pasticcio brutto, inizia con Sachin Dev Duggal, un “visionario” (è proprio il caso di dirlo) con un curriculum che farebbe invidia a un supereroe della tecnologia: a 14 anni assemblava PC, a 17 aveva creato uno dei primi sistemi di arbitraggio valutario automatizzato per Deutsche Bank. A 21 anni, mentre frequentava ancora l’Imperial College, aveva lanciato Nivio, una società di cloud computing valutata 100 milioni di dollari.

Insomma, uno che di tecnologia se ne intende, motivo per cui quando ha fondato Builder.ai (inizialmente Engineer.ai) promettendo di democratizzare lo sviluppo software, tutti hanno pensato che sapesse il fatto suo. Il dettaglio che nessuno aveva considerato è che tra il sapere come funziona la tecnologia e il riuscire a farla funzionare davvero, c’è la stessa differenza che passa tra dichiarare di saper guidare una Ferrari e trovarsi al semaforo di partenza di un GP.

Builder.ai, la grande truffa dell'AI indiana - macitynet.it
Builder.ai – grafica dal sito web dell’azienda

Il mago senza la bacchetta magica

Un genio del male. Anzi della truffa. Perché la soluzione di Duggal era in effetti molto elegante nella sua semplicità: combinare componenti di codice modulari con sviluppatori umani, il tutto coordinato dall’intelligenza artificiale. La piattaforma si chiamava Builder Studio e aveva come mascotte digitale la già citata Natasha, un assistente che prometteva un’esperienza utente fluida alimentata dall’AI. Il slogan era irresistibile: rendere lo sviluppo software facile come ordinare una pizza. Un’idea che fa leva su quell’approccio al mercato che gli americani (soprattutto i finanziatori) adorano: la pigrizia. Non fare meglio, ma fare meno fatica. Per qualunque cosa: da scattare una foto senza saperne niente a dimagrire senza sforzo oppure parlare mille lingue senza doverne imparare neanche una, passando per fare software senza saper fare software. È il vero sogno americano: l’uomo universale di Goethe al contrario: capace di fare tutto anche se non ha alcun talento.

Insomma, fare software come si ordina una pizza (senza saper fare la pizza). Peccato che, come avrebbe poi scoperto il Wall Street Journal, dietro questa pizza tecnologica ci fossero cuochi in carne e ossa che preparavano tutto a mano, fingendo di essere robot da cucina.

L’operazione di marketing era stata così raffinata che aveva convinto giganti come Microsoft, SoftBank e il Qatar Investment Authority a versare centinaia di milioni nelle casse dell’azienda. La valutazione aveva superato il miliardo e mezzo di dollari, trasformando Builder.ai in uno degli unicorni più promettenti del settore AI. Microsoft aveva perfino integrato la piattaforma nei suoi servizi cloud, suggellando una partnership che sembrava il matrimonio perfetto tra innovazione e tradizione tecnologica. Uno di quei momenti magici che vorresti che non finissero mai. Invece, non era magia: era un precipitare velocemente verso il suolo, dove Builder.ai si è regolarmente schiantata. Infatti, come spesso accade nelle favole moderne della Silicon Valley, la saggezza delle nostre nonne aveva previsto tutto: il re era nudo e bisognava aspettare solo che qualcuno se ne accorgesse.

Il primo a gridare allo scandalo è stato il Wall Street Journal che ha rivelato la scomoda verità: l’AI di Builder.ai era più un trucco di marketing che una svolta ingegneristica. Dipendenti attuali e passati hanno confermato che gran parte del lavoro veniva svolto manualmente da sviluppatori, mentre i calcoli di prezzi e tempistiche venivano gestiti da software tradizionali. Le tecnologie di elaborazione del linguaggio naturale erano inesistenti e gli alberi decisionali utilizzati internamente appartenevano più agli anni Cinquanta che all’era dell’intelligenza artificiale. Era, come sintetizzò efficacemente un articolo, tutto ingegneri e zero AI. Una truffa migliore poteva solo essere quella di vendere il Taj Mahal ai ricchi turisti americani, come fece un secolo fa Totò con la fontana di Trevi. Ricordate? È che in certe cose noi italiani siamo sempre avanti. A lasciargli mano libera, avremmo artisti della spaccata che gli indiani se li sognano, ma lasciamo perdere.

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Builder.ai – grafica dal sito web dell’azienda

La fabbrica delle illusioni

Insomma, tutto bello, peccato che la scoperta del Wall Street Journal non sia di oggi ma del 2019. La magia della fuffa metafisica e della supercazzola tecnologica ha permesso a Builder.ai, nonostante l’esposizione mediatica, di riuscire a mantenere viva la finzione per altri sei anni, continuando a raccogliere fondi e a espandersi in nuovi mercati. Gli ex dipendenti raccontavano su Reddit di progetti che non venivano mai consegnati, di codice incomprensibile e di un’esperienza di sviluppo a dir poco disastrosa.

Intanti, l’azienda pagava stipendi miseri ai suoi sviluppatori mentre spendeva cifre folli in marketing e espansione, bruciando 40 milioni di dollari al trimestre nel periodo di massimo splendore. Il modello di business era semplice: usare il brand dell’AI per attirare investimenti e clienti, mentre un esercito di programmatori sottopagati lavorava nell’ombra per mantenere in piedi l’illusione. Una specie di “Mechanical Turk” (una truffona di un secolo e mezzo fa) applicato allo sviluppo software, con la differenza che qui nessuno sapeva che dietro la macchina c’erano persone vere.

Le crepe iniziarono ad allargarsi quando Viola Credit, uno dei principali finanziatori, si accorse che i dati finanziari forniti dall’azienda erano, per usare un eufemismo, creativi. Builder.ai aveva gonfiato le previsioni di ricavi del 300%, una “piccola” inesattezza che è costata cara quando il creditore ha deciso di congelare 37 milioni di dollari dai conti dell’azienda. Nel frattempo, come un vero artista della truffa, Duggal si era prudentemente dimesso da CEO a febbraio, lasciando il posto a Manpreet Ratia con il compito di gestire il disastro. Il nuovo amministratore delegato, uno che forse troppo sveglio non deve essere, si è ritrovato con soli 5 milioni di dollari in cassa, bloccati peraltro dalle normative governative sui flussi di capitale, insufficienti persino a pagare gli stipendi. A quel punto, la parola fine era inevitabile.

Il 20 maggio 2025 Builder.ai ha dichiarato bancarotta, trascinando con sé i sogni di migliaia di clienti che si sono ritrovati con app incomplete e la necessità di ricostruire tutto da zero. L’azienda doveva 85 milioni di dollari ad Amazon e 30 milioni a Microsoft, cifre che non sembrano enormi, fino a quando non arrivano gli ufficiali giudiziari a casa tua a pignorarti tutto per tre generazioni a venire. Gli investitori hanno perso tutto, i dipendenti sono stati licenziati in massa e sul sito web ora ci sono solo due indirizzi email di contatto. Duggal, nel frattempo, mantiene il titolo di wizard nel consiglio di amministrazione, un ruolo che ora suona più come una beffa che come un riconoscimento. La sua più grande magia sarà quella di sparire, a un certo punto, con il resto dei soldi. Oppure ottenere nuovi finanziamenti, chissà.

La lezione del pizzaiolo digitale

C’è anche una morale dietro a tutto questo, se la volete. La morale è semplice: la storia di Builder.ai è la dimostrazione che nel mondo della tecnologia la linea tra visionario e venditore di fumo è spesso più sottile di un capello. L'”AI washing”, ovvero la pratica di spacciare tecnologie tradizionali per intelligenza artificiale, è diventato lo sport nazionale delle startup che cercano finanziamenti.

Il caso Builder.ai ricorda da vicino quello di Theranos: quando il divario tra promessa tecnologica e capacità reale si apre anche solo di un millimetro, il mercato dei capitali lo trasforma in un abisso di chilometri nel giro di secondi. La differenza è che Elizabeth Holmes almeno aveva inventato una macchina che non funzionava, mentre Duggal ha venduto una macchina che non esisteva proprio. Tutta gente il cui Iban è cresciuto come un’eruzione del Vesuvio.

Ma non è finita qui. Perché adesso uno potrebbe pensare: è scoppiata la bolla, niente più promesse irrealistiche. E invece no. Infatti, nonostante il disastro di Builder.ai, il mercato del no-code e low-code rimane in salute, con Gartner che prevede che entro il 2028 il 60% delle nuove applicazioni aziendali sarà sviluppato usando queste piattaforme. Il settore vale già 26 miliardi di dollari e continua a crescere, segno che l’idea di democratizzare lo sviluppo software non era sbagliata in sé.

Secondo gli esperti, il problema di Builder.ai non era l’obiettivo, ma il metodo: vendere come rivoluzione tecnologica quello che era essenzialmente un call center mascherato da laboratorio di intelligenza artificiale. E mentre i programmatori che hanno reso possibile l’inganno cercano nuovi lavori, Duggal probabilmente sta già preparando la sua prossima presentazione per investitori, magari stavolta puntando sulla blockchain quantistica o sui neural network biologici. Perché se c’è una cosa che la Silicon Valley non impara mai, è che le scorciatoie verso il futuro, le idee che cercano di sfruttare la pigrizia dei clienti anziché la loro fame di innovazione, portano quasi sempre dritte nel passato.

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