Dopo il primo articolo di questa breve serie di tre sull’intelligenza artificiale, in cui abbiamo guardato l’uso anticompetitivo fatto da aziende come Anthropic dei libri piratati per l’addestramento dei suoi modelli, e dopo aver scoperto che c’è un intero mondo di autori che di questo ne risentirà profondamente, vediamo più nel dettaglio cosa sta per succedere al settore di produzione culturale delle società occidentali e non solo.
L’industria culturale si trova al bivio più drammatico della sua storia moderna. Dopo oltre un secolo di equilibri consolidati tra creatori, distributori e pubblico, l’intelligenza artificiale sta scardinando le fondamenta stesse di un sistema che ha prodotto tutto, dal cinema hollywoodiano alle case editrici, dalle major discografiche alle piattaforme di streaming. Non si tratta di una semplice evoluzione tecnologica, ma della fine di un’era in cui figure umane definite (parliamo dei registi, degli scrittori, degli attori, dei produttori) controllavano ogni anello della catena creativa.
Oggi quel che succede è un vero terremoto. L’AI infatti promette di sostituire o almeno trasformare radicalmente ciascuno di questi ruoli, ridefinendo cosa significhi creare, distribuire e consumare cultura. Le conseguenze economiche e artistiche di questa transizione sono ancora difficili da prevedere, ma il cambiamento appare irreversibile.
Se vogliamo capire cosa sta per succedere, bisogna guardare a chi ha fatto dell’ibridazione digitale-culturale la sua arma: Netflix, cioè il capostipite dei servizi di streaming video. Oggi Netflix rappresenta il laboratorio più avanzato di questa trasformazione, avendo già introdotto algoritmi che non si limitano a raccomandare contenuti ma influenzano profondamente la produzione stessa. La piattaforma ha sviluppato un sistema di classificazione basato su 77mila “altgeneri” che analizza ogni aspetto di film e serie televisive, dai toni emotivi ai soggetti narrativi.
Questo approccio data-driven, in realtà seguito adesso anche dai canali televisivi tradizionali, ha generato quello che molti critici definiscono “algorithm movie“: prodotti culturali progettati per massimizzare l’engagement piuttosto che l’originalità artistica.
Film come “The Electric State“, costato 320 milioni di dollari ma rapidamente dimenticato dal pubblico, testimoniano i limiti di questa strategia. Quello che va bene per l’algoritmo spesso dal punto di vista del gusto “vero”, cioè profondo e culturalmente rilevante, delle persone è semplicemente una ciofeca. Tuttavia, l’influenza di Netflix sul mercato globale è tale che le sue scelte metodologiche stanno diventando lo standard de facto per l’intera industria.
La rivoluzione non si ferma alla raccomandazione e alla produzione guidata dai dati. L’AI generativa sta già cominciando a sostituire lavori tradizionalmente umani nel processo creativo, dalla sceneggiatura alla post-produzione. Sistemi come ChatGPT possono già scrivere episodi di sit-com natalizie convincenti, mentre strumenti di video-generazione permettono a piccoli team di creare contenuti che un tempo richiedevano budget milionari e centinaia di professionisti.
Non i tradizionali effetti speciali fatti digitalmente ma “a mano” da artisti in carne e ossa, che usano al posto di pennelli e colori i software (da decenni ormai, vedi i film della Pixar o capolavori come Jurassic Park). No, qui parliamo di sequenze fatte integralmente o quasi a partire da un prompt. Un “Hey ChatGPT, fammi dieci secondi di combattimento tra samurai sul tetto del grattacielo” e oplà, ecco che (nei sogni dei produttori di Hollywood) arriva il risultato, pronto per essere montato con il resto del film.
In realtà per adesso si gioca un’altra partita. I campioni sono ovviamente le startup, come “AI OR DIE” dimostrano come tre persone in tre posti diversi, cioè Canada, Stati Uniti e Polonia, possano produrre sketch comedy surreali visti da centinaia di migliaia di spettatori, utilizzando solo intelligenza artificiale e creatività umana. Questo fenomeno sta democratizzando la produzione culturale, ma al tempo stesso minaccia i modelli economici tradizionali che garantivano sostentamento a migliaia di professionisti del settore.
L’approccio cinese: pragmatismo contro visionarismo
L’America esagera, come sempre. E la prudente Cina? Mentre Silicon Valley insegue il sogno dell’intelligenza artificiale generale (AGI) che dovrebbe superare le capacità cognitive umane, la Cina ha scelto una strada radicalmente diversa. Sotto la guida di Xi Jinping, il capo di Stato a Pechino, l’industria tecnologica cinese si concentra su applicazioni pratiche e immediate dell’AI, integrandola in settori che vanno dall’agricoltura alla gestione urbana.
Questa filosofia “fortemente orientata alle applicazioni” sta producendo risultati concreti: modelli AI cinesi valutano già esami scolastici, migliorano previsioni meteorologiche e assistono gli agricoltori nella rotazione delle colture. L’approccio pragmatico cinese potrebbe rivelarsi più sostenibile nel lungo periodo, soprattutto se l’AGI dovesse rimanere un miraggio. La divergenza strategica tra le due superpotenze tecnologiche riflette visioni profondamente diverse sul ruolo dell’AI nella società e nell’economia.
La Cina sta investendo massicciamente in un ecosistema AI distribuito, con un fondo governativo da 8,4 miliardi di dollari dedicato alle startup del settore e programmi locali che moltiplicano questi investimenti. La strategia cinese prevede l’integrazione dell’AI in ogni aspetto della produzione culturale, dalle “dark factory” robotizzate che producono automobili elettriche agli ospedali dove medici virtuali assistono i colleghi umani. Questo approccio sistematico sta creando un’alternativa al modello occidentale centrato sui giganti tecnologici privati.

Mentre Hollywood brucia miliardi nella corsa all’AGI, la Cina sta costruendo un’infrastruttura AI che potrebbe dominare i mercati internazionali attraverso applicazioni immediate e costi contenuti. La battaglia per il futuro dell’industria culturale si sta combattendo su due fronti: l’innovazione visionaria americana contro l’implementazione pragmatica cinese.
Il modello, che oltretuto è anche open-source (unico modo per competere con i colossi come Google, OpenAI e Anthropic, dai portafogli sostanzialmente infinito), è stato abbracciato con furbizia dalla Cina e sta già influenzando i mercati globali, rendendo accessibili strumenti AI sofisticati a costi molto inferiori rispetto alle soluzioni proprietarie occidentali. Piattaforme come DeepSeek stanno dimostrando che è possibile creare valore economico significativo senza inseguire necessariamente la frontiera tecnologica più avanzata.
Questa strategia potrebbe consentire alla Cina di conquistare quote di mercato importanti nell’industria culturale globale, proprio mentre l’Occidente si concentra su obiettivi più ambiziosi ma incerti. La competizione non riguarda solo la supremazia tecnologica, ma la definizione stessa di cosa l’AI dovrebbe essere e fare nella società contemporanea. Insomma, una vittoria non solo tecnologica ed economica ma anche culturale, un po’ come fecero gli Usa con il loro soft power e il loro predominio culturale dopo la Seconda guerra mondiale.

Il paradosso della personalizzazione e l’omologazione culturale
La promessa originale delle piattaforme digitali era quella di democratizzare l’accesso alla cultura, offrendo cataloghi infiniti e raccomandazioni personalizzate per ogni gusto. Un mondo fatto di Internet Archive, di Liber Liber e progetti Gutenberg, di cataloghi aperti e di enciclopedie libere e gratuite come Wikipedia. Un mondo inclusivo di nicchie e diversità. La realtà si è rivelata paradossalmente opposta.
Infatti, più i sistemi diventano sofisticati nel profilare gli utenti, più la produzione culturale si omologa verso formule sicure e prevedibili. Netflix ha scoperto che il 7% dei titoli più popolari genera il 50% delle visualizzazioni, una concentrazione ancora maggiore rispetto al box office cinematografico tradizionale. Questo fenomeno sta creando una cultura sempre più uniforme, dove l’algoritmo non solo riflette le preferenze esistenti ma le amplifica e le cristallizza. Il risultato è un circolo vizioso in cui la produzione culturale diventa sempre più standardizzata per soddisfare metriche di engagement piuttosto che criteri artistici o di diversità narrativa.
La personalizzazione estrema promessa dall’AI potrebbe paradossalmente portare a un ulteriore impoverimento dell’esperienza culturale condivisa. Personale ma tutto uguale, insomma. Con sistemi futuri che potrebbero generare contenuti unici per ogni utente, eliminando quella dimensione comunitaria che ha sempre caratterizzato la cultura umana, ma facendolo seguendo gli stessi fili rossi. Film, libri e canzoni creati al momento per un pubblico di una sola persona rappresenterebbero la fine della cultura come fenomeno sociale condiviso.

Citiamo una figura storica che è passata di moda ma che a suo tempo è stato molto importante nella prima critica ai social media e al loro potere di omologazione. Parliamo di Jaron Lanier, pioniere della realtà virtuale, avverte che potremmo trovarci in una “società dissociata tagliata fuori dalla vita reale“, dove le persone interagiscono principalmente con contenuti e personalità artificiali. Questa prospettiva solleva interrogativi niente male non solo sull’industria dell’intrattenimento, ma sul futuro stesso della condivisione culturale e del dibattito pubblico.
Gli algoritmi di raccomandazione stanno già modificando i comportamenti di consumo culturale in modi sottili ma pervasivi. La tendenza al “binge-watching” e alla fruizione di contenuti come sottofondo (il famoso “second-screen viewing“) ha spinto i produttori a creare opere sempre più compatibili con l’attenzione parziale e frammentata. Questa dinamica sta influenzando non solo la forma dei contenuti ma anche la loro sostanza, privilegiando narrazioni lineari e prevedibili rispetto a opere che richiedono concentrazione e riflessione.
Nel settore della cultura che si è fatta industria ormai da quasi 200 anni la forma e la sostanza seguono il guadagno. Il rischio quindi è che l’industria culturale del futuro che alimenta la dieta mediale delle persone produca principalmente “comfort food” intellettuale, perdendo la capacità di sfidare, sorprendere o provocare il pubblico.

L’economia della creatività nell’era dell’automazione
Come abbiamo visto la trasformazione dell’industria culturale per via dell’AI solleva questioni economiche fondamentali che vanno ben oltre la semplice sostituzione tecnologica del lavoro umano. Infatti, se pure è indubbio che di sostituzione si parla, così come accade in tanti altri settori, c’è da dire anche che ci sono settori e settori, lavori e lavori.
Il ruolo della creatività artigianale e artistica all’interno dell’industria culturale è un ruolo che ha un importante impatto sulla cultura della società. Se la creazione di contenuti diventa automatizzabile e virtualmente gratuita, quale valore economico avrà la creatività umana? Se chi ha talento artistico e lo applica non verrà più pagato, cosa farà? E quale tipo di “intenzione” ci sarà nei contenuti prodotti dalle AI?
I modelli di business tradizionali, basati sulla scarsità di talenti e sulla complessità della produzione, stanno crollando di fronte a strumenti che democratizzano radicalmente la creazione culturale. Non stiamo facendo la difesa dei dattilografi e delle dattilografe contro il word processor, bensì quello degli sceneggiatori e dei registi, dei poeti e degli scrittori contro l’AI.
Questo cambiamento potrebbe portare a una società in cui la creatività diventa un lusso, accessibile solo a chi può permettersi di non essere efficiente, mentre la maggior parte della produzione culturale viene affidata a sistemi automatizzati. La sfida non è solo tecnologica ma sociale: come mantenere spazio per l’originalità umana in un ecosistema che premia velocità, volume e ottimizzazione algoritmica?

L’industria cinematografica sta già sperimentando questo futuro attraverso tecnologie come i “digital humans” e la sintesi vocale avanzata. Attori morti da decenni possono essere “resuscitati” digitalmente, mentre software di deepfake permettono di creare performance convincenti senza coinvolgere fisicamente gli interpreti. Questi sviluppi stanno generando tensioni legali e etiche inedite: chi possiede i diritti su una performance digitale? Come si proteggono gli attori dall’uso non autorizzato della loro immagine?
Le major hollywoodiane, che vedono opportunità di profitti dove il resto delle persone vede “solo” arte e poesia, stanno investendo miliardi in queste tecnologie, vedendole come un modo per ridurre costi e rischi, ma il prezzo potrebbe essere la fine del cinema come forma d’arte collaborativa tra esseri umani.
Tuttavia, come tutte le monete, c’è anche un rovescio. Infatti, la democratizzazione della produzione culturale attraverso l’AI potrebbe anche aprire opportunità inedite per voci e storie tradizionalmente escluse dai circuiti mainstream. Se i costi di produzione diventano marginali, narratori indipendenti potrebbero competere alla pari con le grandi corporation dell’intrattenimento. Tuttavia, questa prospettiva ottimistica deve confrontarsi con la realtà della distribuzione e della scoperta dei contenuti, ancora dominata da algoritmi e piattaforme controllate da pochi giganti tecnologici.
Il futuro dell’industria culturale dipenderà largamente da come queste tensioni tra democratizzazione creativa e concentrazione distributiva si risolveranno nei prossimi anni. Permetteteci di non essere ottimisti.
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