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Tim Cook: «La tecnologia? È una questione di umanità»

Gli strumenti non sono né buoni né cattivi. Tutto dipende dall’intenzione con cui vengono realizzati e utilizzati. È un Tim Cook straordinariamente pacato e con i piedi per terra, pragmatico in una maniera molto lontana da quella dei visionari-miliardari della Silicon Valley quello che ha risposto alle domande dei ragazzi e delle ragazze delle scuole italiane durante l’evento fiorentino organizzato dall’Osservatorio permanente giovani-editori.

Il tema è ritornato in domande diverse: la tecnologia è cattiva? Come possiamo imparare a vincerla? E poi, in maniera semplice, diretta e assolutamente inequivocabile: siamo noi che diamo forma alla tecnologia o è lei che forma noi?

Tim Cook La tecnologia

Tim Cook non ha mai battuto ciglio, come del resto non è accaduto con nessuna delle altre domande. Non ha perso il passo, tentennando né manifestato niente che non fosse una disponibilità umana e una intensità niente affatto banale. Soprattutto, il tema della neutralità della tecnologia è uno che gli sta particolarmente a cuore e che lo rende molto attento. Risponde senza esitare, tratteggiando come suo solito un orizzonte ampio ma ben definito, all’interno del quale si mostra la sua idea. Che non è per niente scontata.

«La tecnologia – ha detto Cook – non è né buona né cattiva. La tecnologia non deve essere umanizzata e pensare che decida al posto nostro. Sta a noi infonderle umanità, sta a noi umanità»: infondere umanità è l’espressione che Cook ha utilizzato sistematicamente per indicare il concetto centrale del suo pensiero su questo argomento. La tecnologia è uno strumento neutro, che viene forgiato dagli uomini,. Le scelte che fanno gli uomini, nel costruirla e nell’utilizzarla, sono quelle che poi avranno delle conseguenze. Non le supposte azioni del computer.

È un tema espresso in maniera chiara e inequivocabile. Ma anche coraggioso. Perché toglie l’alibi finale di burocrati e plutocrati quando inneggiano alla tirannia della tecnologia, come se fosse altra da noi. Come se questa tirannia avvenisse per una volontà esterna a quella umana. Come se la tecnologia fosse terribile oppure fosse straordinaria, un manifesto destino dell’umanità che sostituisce il nostro concetto di provvidenzialità. Ma così per Tim Cook non è.

Sostiene invece Cook che bisogna infondere umanità nella tecnologia. E, in un’altra risposta, spiega ancora meglio cosa intende concretamente: «Noi di Apple crediamo che i nostro prodotti possano cambiare l’umanità e cambiarla in meglio. È quello che ci sforziamo di fare, è quello che vogliamo che accada». E poco oltre: «Siamo sempre stati all’incrocio fra arti liberali e scienza, quelli che fecero il Macintosh nel 1984 erano musicisti, artisti, programmatori, ingegneri. E siamo rimasti ancora quello. Per questo motivo ci sono persone che seguono strade molto diverse nei nostri team, dove viene premiata l’eterogeneità e la ricchezza dell’apporto dato dai talenti».

Per questo la conoscenza del codice, ma ancora prima di quella la conoscenza della mentalità del programmatore, del suo modello di analisi del mondo (il “pensiero computazionale”, come dicono i lettori di Seymour Papert) è importante. Non per sapere realmente programmare (quello è un lavoro difficile, destinato a chi ha veramente passione) ma per riuscire a capirsi e a lavorare assieme con una lingua e soprattutto una cultura comune nei team meticci e ricchi di competenze diverse ai quali fa riferimento il saggio Tim Cook.

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