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Non sempre passa il treno giusto, quando Steve Jobs non poté far comprare Pixar ad Apple

Anche per i visionari più potenti del mondo esistono treni che passano una volta sola. E se l’orario non torna, non c’è verso: il treno non si prende.

La storia dell’innovazione tecnologica è costellata di occasioni mancate, di incroci temporali che non hanno saputo allinearsi, di possibilità svanite nell’aria per un semplice difetto di sincronizzazione. Steve Jobs, il genio che ha rivoluzionato almeno sei industrie diverse, si è trovato di fronte a questo paradosso temporale quando nel 2006 decise di vendere Pixar a Disney invece di farla acquisire da Apple. Non si trattò di un errore di valutazione, ma di un classico caso in cui la realtà si dimostra più testarda dei sogni.

Una decisione che oggi appare quasi bizzarra, considerando che Apple è diventata l’azienda più capitalizzata al mondo e che ormai investe miliardi in contenuti originali. Ma il tempo, come sa chiunque abbia provato a inseguirlo, ha regole implacabili che nemmeno i grandi visionari possono piegare. Jobs si ritrovò così a compiere una scelta apparentemente controcorrente rispetto alla sua filosofia di integrazione verticale, ma perfettamente razionale nel contesto storico di quel preciso momento.

Soul, il film Pixar di Natale, arriverà su Disney + il 25 dicembre

La storia controfattuale

Guardando alle condizioni dell’epoca, un singolo particolare viene fuori: sotto la gestione di Steve Jobs Apple rinasce dal punto di vista della fama e della qualità e design dei suoi prodotti, ma non per i volumi economici. Perlomeno, non al livello di quel genio dell’industria che è Tim Cook: una macchina da guerra che ha creato una “bestia” gigantesca. Infatti, nel 2006 Apple non era ancora la corazzata finanziaria che conosciamo oggi. L’azienda stava rinascendo grazie al successo dell’iPod e di iTunes, ma era ancora lontana dall’essere il colosso capace di spendere miliardi per acquisizioni strategiche (come Beats, per esempio). iPhone era ancora nell’ombra, pronto ad essere annunciato l’anno successivo, ma nessuno poteva prevedere che avrebbe trasformato Apple nella cash machine più efficiente della storia industriale moderna.

Pixar, d’altro canto, rappresentava un gioiello maturo e prezioso, valutato ben 7,4 miliardi di dollari, una cifra che all’epoca rappresentava una montagna insormontabile per le casse di Apple. Lo studio di animazione che Steve Jobs aveva finanziato dopo l’uscita da Apple nel 1985, aveva già sfornato successi planetari come Toy Story, Monsters & Co. e Alla ricerca di Nemo, dimostrando di avere una formula creativa vincente e ripetibile. Il tempismo, però, giocava contro l’ipotesi di un matrimonio tra le due creature di Jobs.

Un poster Pixar autografato da Steve Jobs andrà all’asta

Le lancette dell’orologio non tornavano

La verità fondamentale è che i cicli evolutivi delle due aziende erano drasticamente sfasati. Apple stava appena uscendo dalla sua fase di rinascita ed era concentrata sull’hardware e sul software di base, non ancora pronta a diventare un gigante dell’intrattenimento. Pixar, invece, aveva già raggiunto la piena maturità artistica e commerciale, richiedendo una casa adeguata alla sua statura nel mondo dei media.

Il focus strategico di Apple in quel momento storico era tutto orientato alla rivoluzione mobile che si apprestava a lanciare, un terreno già sufficientemente ambizioso e rischioso da esplorare. Aggiungere la gestione di uno studio cinematografico avrebbe significato disperdere energie preziose in un momento cruciale della trasformazione aziendale. La struttura organizzativa dell’azienda di Cupertino, inoltre, non era minimamente attrezzata per gestire una realtà così diversa come uno studio di produzione cinematografica.

Disney, al contrario, rappresentava il partner ideale: un gigante dell’intrattenimento con l’infrastruttura, la rete distributiva e l’esperienza necessarie per valorizzare appieno il potenziale di Pixar. L’acquisizione da parte della casa di Topolino offriva a Pixar accesso immediato a risorse globali che Apple, in quel momento, non poteva garantire. Per Jobs, la scelta fu dolorosa ma razionale: meglio vendere a chi poteva far crescere immediatamente il valore dell’azienda piuttosto che tenerla in un limbo strategico.

La mossa, peraltro, permise a Jobs di diventare il principale azionista individuale di Disney e di entrare nel suo consiglio di amministrazione, mantenendo così un’influenza significativa sulle strategie future della major. Una posizione di potere che gli consentiva di continuare a proteggere l’eredità di Pixar anche dopo la vendita, garantendo che lo studio mantenesse la sua identità e il suo approccio rivoluzionario all’animazione. E far siglare a Disney anche qualche lucroso accordo con Apple.

Il grande “e se?”

Immaginare un mondo in cui Apple avesse acquisito Pixar significa confrontarsi con uno dei più affascinanti scenari alternativi della storia recente della tecnologia. Apple sarebbe potuta diventare un pioniere dei contenuti originali con almeno un decennio di anticipo rispetto al lancio di Apple TV+. Un vantaggio competitivo incalcolabile nell’era dello streaming che stava per esplodere.

Le sinergie tra la tecnologia Apple e l’innovazione creativa di Pixar avrebbero potuto accelerare sviluppi in campi come l’animazione, la realtà virtuale e il gaming, portando sul mercato prodotti oggi inimmaginabili. L’ecosistema Apple si sarebbe arricchito di contenuti esclusivi di altissima qualità, creando un circolo virtuoso tra hardware, software e intrattenimento che avrebbe definito nuovi standard per l’industria.

Il mercato accessibile per Apple si sarebbe espanso enormemente, toccando segmenti dell’intrattenimento globale che solo anni dopo l’azienda avrebbe iniziato a esplorare. La diversificazione delle entrate, con l’aggiunta di box office, licensing e merchandising, avrebbe reso il modello di business ancora più resiliente, anticipando di anni la strategia dei servizi che Tim Cook avrebbe poi implementato.

I talenti creativi di Pixar, integrati nella cultura Apple, avrebbero potuto influenzare lo sviluppo di prodotti rivoluzionari, aggiungendo una dimensione narrativa e artistica al design già iconico dell’azienda. La fusione tra l’estetica minimalista di Apple e la capacità narrativa di Pixar avrebbe potuto generare una nuova forma di espressione tecnologica capace di toccare le corde emotive del pubblico in modi mai visti prima.

Se poi ci fosse già stato anche il processore Apple Silicon basato su architettura Arm, il vero “ingrediente segreto” per lo sviluppo della piattaforma, e magari anche un po’ più di machine learning (che all’epoca era ancora nella sua infanzia) potremmo tranquillamente partire per un viaggio di fantascienza dal quale chissà quando rientreremo.

pixar colori incredibili

La lezione del tempismo

C’è una lezione neanche tanto zen in questa storia. È la storia di Jobs, di Apple e di Pixar che ci insegna, come un 102esimo racconto buddista, che anche i più visionari devono fare i conti con le coordinate temporali della realtà. Non si tratta solo di avere l’idea giusta, ma di averla nel momento giusto, quando tutte le condizioni necessarie sono allineate. Il genio imprenditoriale non consiste solo nell’immaginare il futuro, ma anche nel riconoscere quando i tempi non sono maturi per realizzarlo.

Jobs dimostrò la sua grandezza proprio nell’accettare questo limite temporale, trovando comunque una soluzione che massimizzava il valore di entrambe le sue creature. La vendita di Pixar a Disney non fu quindi una sconfitta, ma una mossa strategica che riconosceva i vincoli della realtà senza rinunciare alla visione di lungo termine. Jobs sapeva che alcune partite si giocano su tavoli diversi e in momenti diversi.

L’evoluzione successiva di Apple verso i contenuti, con iTunes, Apple Music e infine Apple TV+, dimostra che quella visione di integrazione tra tecnologia e intrattenimento era corretta, ma necessitava di tempi più lunghi per maturare. Oggi Apple produce film e serie TV, competendo direttamente con Disney+ e gli altri giganti dello streaming, in un perfetto esempio di come le grandi visioni richiedano a volte percorsi tortuosi per realizzarsi.

La morale di questa storia, se c’è una morale, è che anche il genio più brillante deve talvolta accettare che la realtà ha i suoi ritmi oltre che i suoi limiti. In un’epoca ossessionata dall’immediato, la vicenda di Jobs, Apple e Pixar ricorda che il successo duraturo richiede pazienza strategica e capacità di adattamento. Ma anche fortuna, che è alla base di ogni buon tempismo. Perché il treno giusto passa una volta sola, e a volte la vera saggezza sta nel riconoscere che non è ancora il momento di salirci.

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