Mentre la diatriba tra Spotify e Apple prosegue a puntate, diversi musicisti tornano ad accusare lo streaming musicale più noto. Il CEO di Spotify Daniel Ek non perde occasione di prendere di mira Apple, visto come un ostacolo alla concorrenza nel mercato della musica digitale.
Apple si è sempre difesa spiegando che Spotify detiene la maggioranza del mercato europeo dello streaming musicale, più del doppio del suo principale concorrente, e non paga nulla a Cupertino per i servizi che l’hanno aiutata a diventare uno dei servizi streaming più conosciuti al mondo.
Diatribe tra Apple e Spotify a parte, quest’ultimo servizio non è apprezzato da molti artisti per il modo con il quale vengono trattati; lo riferisce il francese Les Échos, spiegando che tra i musicisti che hanno il dente avvelenato con Spotify c’è Jean-Michel Jarre, secondo il quale il sogno dell’azienda svedese è quello di fare a meno degli artisti.
Anche Björk non ha buone parole per il servizio in questione, spiegando “È probabilmente una delle cose peggiori che sono successe ai musicisti”.
Sono tante le cose che, a detta di vari artisti, non funzionano nel rapporto con Spotify. Lo racconta bene Liz Pelly, specialista dell’industria musicale, nel volume Mood Machine: The Rise of Spotify and the Costs of the Perfect Playlist.
Esaminando – tra le altre coise – i costi di questo modello di business, inclusi l’uso di musica stock a basso costo nelle playlist popolari e la rinascita di pratiche di dubbia legalità, mettendo in luce le disuguaglianze dello streaming e il modo in cui Spotify ha trasformato la musica in un mercato con gli ascoltatori che pagano con i loro soldi e i loro dati, e i musicisti che forniscono a costi irrisori il materiale che alimenta questo tritacarne.
La piattaforma ha un successo sempre più grande, ma stranamente le entrate per gli artisti continuano a diminuire. Secondo François Moreau, specialista in economia del settore musicale, le royalties sono passate dall’88% del fatturato di Spotify nel 2015 al 70% nel 2024. E a suo dire la spiegazione è semplice: “Le royalties si riducono man mano che il rapporto di forza si ribalta a favore di Spotify, che fa di tutto per non essere più in deficit”.
Da una parte è normale per un’azienda adeguare i pagamenti affinché pareggi i suoi conti, come ha riconosciuto la giustizia dopo una denuncia del MLC (Mechanical Licensing Collective, uno degli equivalenti americani della SIAE). Allo stesso tempo è da valutare che il numero degli artisti è cresciuto nel tempo influendo sul bilancio complessivo.

Tuttavia Spotify viene accusata di accelerare il calo delle entrate degli artisti attraverso sistemi poco ortodossi. Per esempio la riduzione del ricorso a degli artisti in carne e ossa in favore di playlist composte da una percentuale sempre più alta di musiche che riprendono i suoni originali, insieme ad altri sistemi tutti pensati con l’obiettivo di ridurre la remunerazione degli artisti.
E con l’intelligenza artificiale, si va di male in peggio, con la possibilità di creare brani simili a quelli più apprezzati, e allo stesso tempo di evitare o ridurre sensibilmente il pagamento di royalties. Spotify, per voce di Antoine Monin, direttore Benelux e Francia, smentisce la volontà di danneggiare gli artisti, affermando che è in corso una “campagna molto violenta contro Spotify” e che le accuse sono solo “fantasie”.
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