È comparso per tre giorni sulle pagine di Apple. E poi è evaporato. Storia brevissima dell’ultimo sport di Apple, che invitava i giovani a convincere i loro genitori a comprargli un Mac. Perché? Basta ripescare il video su Youtube ed è chiaro: non va bene. Una volta Apple sapeva parlare al mondo con la forza di un martello che sfondava gli schermi. Oggi ritira il quinto spot pubblicitario in poco più di dodici mesi.
Gli spot ritirati sono: “Crush!” spot per iPad Pro ritirato a maggio 2024, “OOO (Out of Office)”, capitolo della serie “The Underdogs” ambientato in Thailandia, due spot per iPhone 16 con Bella Ramsey ritirati a marzo, infine lo spot-film (otto minuti) “The Parent Presentation” di questo giugno.
Quest’ultimo video, sparito nel weekend dal canale YouTube ufficiale, è solo l’ultima puntata di una serie di passi falsi che stanno minando la credibilità comunicativa dell’azienda che ha inventato la pubblicità tecnologica moderna. La domanda è facile: come è possibile che chi ha dettato le regole del gioco per quarant’anni oggi sbagli così spesso e così clamorosamente?

Rompere tutto
Il caso più eclatante resta “Crush!”, ritirato a maggio dopo le proteste per aver mostrato una pressa idraulica che distruggeva strumenti musicali, libri e opere d’arte, risparmiando solo l’iPad “troppo sottile” per essere schiacciato. La metafora nella mente del creativo doveva essere facile: comprimere tutto nell’iPad. Il risultato era completamente diverso.
La domanda: in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale sembra minacciare il lavoro creativo umano, perché trovare una metafora di quel tipo? L’immagine ha immediatamente scatenato una levata di scudi planetaria. Samsung ha colto la palla al balzo pubblicando una risposta in cui una ragazza recuperava la chitarra danneggiata: “La creatività non può essere schiacciata“. Il competitor coreano ha dimostrato di aver capito meglio di Apple il momento storico che stiamo vivendo.
Ad agosto è toccato allo spot girato in Thailandia, accusato di perpetuare stereotipi coloniali e di dipingere il Paese come arretrato e caotico. Il video di dieci minuti, pensato per essere comico, è risultato offensivo per milioni di persone che hanno visto la propria cultura ridotta a macchietta folkloristica. Ancora prima, a marzo, era stato ritirato lo spot su Apple Intelligence che prometteva funzionalità inesistenti, mostrando Siri capace di prestazioni che il sistema non è ancora in grado di offrire.
Quest’ultimo era un problema diverso, certo, ma il punto centrale non cambia: Apple non aveva mai sbagliato uno spot presentando funzioni che non fosse in grado di commercializzare perché non si è mai inventata le suddette funzioni con gli effetti speciali. Invece, in quel caso sì: i dispositivi non erano realmente capaci di fare quello che lo spot mostrava.
Quando Apple dettava legge
Tutto questo andrebbe anche bene, entro certi limiti, se non ci fosse la storia dell’azienda a farci chiedere di più. Infatti, il contrasto con il passato glorioso è stridente quanto un’unghia sulla lavagna. Lo sappiamo tutti ma giova ricordarlo: nel 1984 Ridley Scott firmava per Apple lo spot più influente della storia della pubblicità, quello che presentava il Macintosh come liberatore dall’omologazione informatica rappresentata da Ibm. Compreso il Grande Fratello sullo schermo (che non era Bill Gates). Quella era l’epoca in cui ogni campagna diventava un manifesto culturale.
Anni dopo, al rientro di Jobs alla guida di Apple, “Think Different” celebrava i “folli” che cambiano il mondo. E poi, quando l’azienda ha ricominciato a vincere con prodotti incredibili, dagli iMac colorati del 1997 agli iPod dal 2001, le silhouette danzanti degli iPod trasformavano la musica in pura energia visiva. Steve Jobs non si limitava a vendere prodotti: raccontava rivoluzioni, costruiva miti, creava linguaggi che l’intera industria poi copiava.
La pubblicità di Apple era filosofia applicata al marketing, aveva un’anima, era un modo di vedere il mondo che trascendeva il semplice scambio commerciale. Ogni spot nasceva da una visione precisa del rapporto tra tecnologia e umanità, tra innovazione e bellezza, tra futuro e presente. Jobs aveva capito che vendere computer significava vendere sogni, che proporre tecnologia voleva dire proporre un’identità. Il “Get a Mac” con John Hodgman e Justin Long non ridicolizzava Windows: ridefiniva l’intera percezione sociale dell’informatica personale.
Questo perché era il PC l’eroe, e il suo desiderio umanissimo di diventare come l’amico “cool” era quello che in definitiva stava riorientando il gusto delle persone. Il fatto che Mac e Pc somigliassero ai rispettivi imprenditori Steve Jobs e Bill Gates, non era casuale e arricchiva di profondità e livelli di lettura gli spot. Era tanta roba, insomma.
Quella capacità di anticipare e plasmare i desideri collettivi ha reso Apple un’azienda unica nel panorama industriale mondiale. Non bastava essere innovativi nel prodotto: bisognava essere visionari nella comunicazione, profetici nel linguaggio, rivoluzionari nell’immaginario. La mela morsicata non vendeva solo oggetti: vendeva appartenenza a una tribù di eletti che vedevano il futuro prima degli altri.
L’era del politically correct
Oggi il contesto sociale è radicalmente cambiato e la tolleranza verso messaggi anche solo leggermente fuori dagli schemi si è azzerata. C’è un nuovo modo di sentire. Apple deve navigare in acque infestate da polemiche potenziali, dove ogni parola può scatenare tempeste sui social media e ogni immagine può essere interpretata come offensiva da qualche comunità.
Siamo nell’epoca del politically correct: essere rispettosi di una serie di modi di sentire e di pensare che oltretutto sono in costante movimento non è più una scelta stilistica ma una necessità di sopravvivenza reputazionale che limita drasticamente gli spazi creativi. L’ironia, arma preferita della vecchia Apple, è diventata un campo minato dove un passo falso può costare milioni di dollari in danni d’immagine.
Ma il problema non è solo questo, non è solo esterno. Invece, purtroppo, a molte persone sembra che l’azienda abbia perso la bussola interna che la guidava nelle scelte comunicative. La creatività appare frammentata, priva di quella visione unitaria che trasformava ogni spot in un tassello di un disegno più grande. Le campagne recenti appaiono sconnesse tra loro, generate più da esigenze di marketing contingenti che da una strategia narrativa coerente. Ci vanno sopra una tonnellata di soldi e sono fatte dai migliori pubblicitari del pianeta con i migliori mezzi. Ma il brief iniziale sembra essere totalmente sconnesso da una visione del mondo forte come quella messa insieme da Steve Jobs. È come se Apple avesse dimenticato la propria grammatica comunicativa, violasse ogni giorno quella sintassi unica che rendeva riconoscibili i suoi messaggi a prima vista.
Scusate se sembra l’ennesimo articolo che dice “Quanto ci manca Steve Jobs” perché non è così. Pragmaticamente (e la leadership di Tim Cook è sicuramente più pragmatica che innovativa) c’è da notare però che senza Steve Jobs Apple ha sempre fatto campagne anche spettacolari ma con risultati meno buoni o proprio non buoni, mentre con Steve Jobs ha fatto la storia della comunicazione. Semplicemente questo. La domanda non è tanto perché è successo, quanto perché non sta più succedendo.
L’errore più grave oggi è forse quello di aver trasformato la pubblicità da manifesto in catalogo. Dove una volta c’erano visioni del futuro, oggi ci sono elenchi di funzionalità. Dove si celebrava la rivoluzione, oggi si promuovono aggiornamenti incrementali. Il magic touch jobsiano è stato sostituito dalla precisione manageriale di Tim Cook, efficace sui bilanci ma sterile sull’immaginario collettivo. E, stranamente, nonostante la diversità, l’inclusione, la privacy e l’ambiente siano temi chiave della leadership di Cook, questo non si traduce in una comunicazione di prodotto coerente. C’è questo afflato, per carità, ma è prevalente nelle pubblicità che parlano di campagne e di ambiente e di inclusione. Quando poi si va sui prodotti, il registro cambia e, come abbiamo visto, stona.
Una volta può succedere, ma se accade cinque volte di fila o quasi, allora da qualche parte c’è un problema.
Lo scollamento di Tim Cook
Infatti il numero uno di Apple eccelle nella gestione operativa ma sembra incapace di replicare il carisma visionario del predecessore. Cook ha trasformato Apple nella macchina da soldi più efficiente della storia, moltiplicando almeno per tre (il valore cambia nel tempo) il valore azionario e diversificando il business verso i servizi. Tuttavia, la sua leadership appare scollegata dai fermenti culturali contemporanei, incapace di intercettare le sensibilità emergenti prima che diventino trappole reputazionali. La frequenza degli errori comunicativi suggerisce un problema sistemico nella catena decisionale, dove manca il filtro di una sensibilità culturale affinata.
Le scuse pubbliche e le rimozioni delle campagne rivelano un’azienda che reagisce invece di anticipare, che si adegua invece di guidare. L’Apple di Jobs non si scusava mai: definiva cosa fosse cool e il mondo si adeguava. Quella di Cook ritira gli spot, segnalando una crisi di autorevolezza che va ben oltre la comunicazione. È il sintomo di un’azienda che ha perso la capacità di dettare l’agenda culturale, ridotta a inseguire tendenze che non riesce più a interpretare.
La disconnessione emerge con particolare chiarezza negli spot su Apple Intelligence, dove l’azienda promette funzionalità che non esistono ancora. È il segno di una pressione commerciale che sovrasta la responsabilità comunicativa, di una fretta di restare competitivi che compromette l’onestà intellettuale. Jobs avrebbe mai mostrato un prodotto che non funzionava come promesso? La domanda suona retorica, ma la risposta illumina la distanza siderale tra due modi di intendere l’innovazione.
Il prezzo dello spot
Gli errori comunicativi stanno iniziando a costare caro in termini economici e reputazionali. Alcuni azionisti hanno intentato cause legali per danni derivanti dalle promesse non mantenute su Apple Intelligence, accusando l’azienda di pubblicità ingannevole. La concorrenza, da Samsung a Google, approfitta di ogni scivolone per posizionarsi come alternativa più sensibile e responsabile. Il valore del brand, costruito in decenni di comunicazione impeccabile, si sta erodendo spot dopo spot, gaffe dopo gaffe.
Il paradosso è che Apple continua a produrre ottimi prodotti ma non sa più raccontarli efficacemente come vorrebbe. L’iPhone rimane il telefono più desiderato al mondo, l’iPad domina il mercato tablet, i Mac conquistano quote crescenti. Eppure la narrazione aziendale non vola. Anzi, negli spot (cioè nell’effetto che generano effettivamente, non nella bellezza della produzione cinematografica) diventata goffa, impacciata, talvolta controproducente. È come avere Formula 1 eccezionali guidate da piloti mediocri: il potenziale c’è, ma i risultati deludono le aspettative.
La perdita di autorevolezza comunicativa si riflette inevitabilmente sulla percezione generale dell’azienda. Apple non è più vista come il leader indiscusso dell’innovazione ma come uno dei tanti protagonisti di un mercato affollato. Le magie oggi le fa OpenAI. Il “tocco” di Apple sembra quasi che si sia dissolto, sostituito dalla competenza tecnica che basta per i bilanci ma non per i sogni. E senza sogni, anche la tecnologia più avanzata rischia di sembrare banale routine anziché rivoluzione quotidiana.
Dal martello di “1984” al martellare continuo degli errori: il cerchio si è chiuso in modo amaro. Apple ha smesso di essere l’antagonista del Grande Fratello della tecnologia per diventare lei stessa il grande fratello, però quello pasticcione che sbaglia le mosse. Che si imbarazza. Che non capisce che ci sono barzellette che non fanno ridere tutti e forse non è appropriato raccontarle. E che i prodotti è bene prima farli e poi comunicarli.
Anche perché il numero di primati tecnologici di Apple è enorme, e le sue tecnologie straordinarie. È stata la prima a dedicare un co-processore dei suoi telefoni e tablet (e poi computer) al calcolo per l’intelligenza artificiale, utilizzandola per potenziare e rendere migliori decine di funzioni senza mai dichiararlo esplicitamente. Il machine learning c’è da anni, ben prima che che arrivassero gli LLM di OpenAI con la GenAI. Ma le distinzioni troppo sottili non funzionano, il pubblico è abituato ad avere il meglio da Apple e basta, senza tanti tecnicismi e tante discussioni sul sesso degli angeli. Che invece sta infilando una serie di piccoli passi falsi, uno dopo l’altro.
La strada per recuperare credibilità comunicativa è lunga e richiede una rivoluzione culturale interna che parta dalla leadership. Altrimenti, l’azienda che ha insegnato al mondo come si fa pubblicità rischia di diventare un caso di studio su come si distrugge un patrimonio narrativo costruito in quarant’anni di genialità visionaria.















