Alcune app stanno allarmando il mondo tech, queste continuano a raccogliere dati anche quando l’utente nega il consenso.
Negli ultimi mesi qualcosa si è incrinato nel rapporto di fiducia tra utenti e applicazioni mobili. Tutto sembra funzionare come sempre, le app si aprono, inviano notifiche, fanno il loro lavoro.
Però sotto la superficie, lontano dagli occhi di chi usa quotidianamente lo smartphone, sta emergendo uno scenario decisamente più complesso e, per certi versi, inquietante. Il problema non è nuovo, ma ora assume contorni molto più concreti e difficili da ignorare.
Ci sono app che ti spiano nonostante tu non dia il consenso
Molti utenti sono convinti che negare un permesso significhi bloccare definitivamente l’accesso a microfono, posizione o identificativi del dispositivo. In teoria dovrebbe funzionare così, infatti i sistemi operativi moderni sono costruiti proprio per offrire questo livello di controllo. Eppure qualcosa non torna. Alcuni segnali, inizialmente sottovalutati, hanno spinto diversi ricercatori a guardare più a fondo, scoprendo che non sempre le regole vengono rispettate.
Il punto critico è emerso solo dopo analisi approfondite del comportamento delle app in background. Non parliamo di bug isolati o di configurazioni sbagliate, ma di vere e proprie strategie software pensate per aggirare i limiti imposti dai sistemi di protezione. È qui che entra in gioco il lavoro dei ricercatori dell’International Computer Science Institute, che hanno portato alla luce una situazione molto più estesa di quanto si potesse immaginare.
Secondo lo studio, infatti, sono state individuate oltre 1.000 app in grado di bypassare le restrizioni sui permessi. Anche quando l’utente nega esplicitamente l’accesso, queste applicazioni riescono comunque a raccogliere dati sensibili come la geolocalizzazione precisa e gli identificatori telefonici. Il tutto avviene alle spalle dell’utente, sfruttando canali alternativi e combinazioni di informazioni che, prese singolarmente, sembrano innocue ma insieme diventano estremamente invasive.

Questa scoperta mette in evidenza quanto sia difficile, oggi, rimanere davvero privati online. Soprattutto se si considera quanto siamo legati ai nostri telefoni e alle app mobili, che utilizziamo per lavorare, comunicare, spostarci e perfino per monitorare la salute. Le aziende tecnologiche, infatti, accumulano montagne di dati personali su milioni di persone, dati che raccontano dove siamo stati, con chi interagiamo e cosa cattura la nostra attenzione.
I legislatori stanno cercando di correre ai ripari introducendo normative sempre più stringenti sulla privacy. In teoria, i permessi delle app dovrebbero essere lo strumento principale per decidere quali informazioni cedere e quali no. Anche Apple e Google, consapevoli della crescente pressione pubblica, hanno rilasciato nuove funzionalità pensate per migliorare la trasparenza e il controllo dei dati. Indicatori visivi, report sulla privacy e limitazioni più granulari sono passi importanti, però non sempre sufficienti.
Il problema è che le app continuano a trovare soluzioni nascoste per aggirare queste protezioni. Utilizzano SDK di terze parti, combinano dati apparentemente anonimi o sfruttano vecchie API ancora supportate dai sistemi operativi. Tutto questo rende il quadro estremamente complesso, anche per utenti esperti o professionisti del settore, che spesso danno per scontato un livello di sicurezza che, di fatto, non è garantito al cento per cento.
Al momento si attende un aggiornamento significativo che dovrebbe chiudere molte di queste falle strutturali. Però, nell’attesa, l’unica soluzione realmente efficace per chi vuole sentirsi tutelato resta piuttosto drastica. Disinstallare le app coinvolte, il cui elenco è disponibile direttamente sul sito dell’International Computer Science Institute, è l’unico modo per interrompere definitivamente la raccolta non autorizzata dei dati. Una scelta scomoda, certo, ma necessaria per riprendere il controllo della propria privacy in un ecosistema digitale sempre più affamato di informazioni.
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