Sta cambiando tutto. Di nuovo. Nell’arena affollata dell’intelligenza artificiale, dove si combatte a colpi di miliardi di parametri, Xiaomi ha appena lanciato un pugno che ha fatto tremare i giganti: MiMo. Il nuovo modello AI del colosso cinese “pesa” solo 7 miliardi di parametri ma colpisce come se ne avesse 35. Una caratteristica che gli esperti del settore definiscono “punching above its weight“, boxare sopra la propria categoria di peso. Un modo sportivo per dire che fa il mazzo a quelli più grossi di lui.
Così, mentre OpenAI, Google e gli altri titani si guardano perplessi, Xiaomi annuncia che questo è solo l’inizio: MiMo entrerà in ogni dispositivo dell’azienda, dallo smartphone al frigorifero. Le conseguenze potrebbero essere rivoluzionarie: togliere l’aria ai big del tech (Google e OpenAI in questo caso) ed essere l’avanguardia di una rivoluzione alla carta, su misura, in cui ognuno pensa a sé e fa per tre.
La rivoluzione di aprile
L’annuncio è arrivato il 30 aprile 2025, nel quartier generale di Xiaomi a Pechino. Sul palco di un keynote (e, sia detto fra parentesi, sono tutti fatti a immagine e somiglianza di quelli americani degli anni Novanta-Duemila di Microsoft e di Apple), gli ingegneri dello Xiaomi Big Model Core Team hanno mostrato risultati che hanno fatto alzare più di un sopracciglio nella Silicon Valley. MiMo batte o1-mini di OpenAI nei test matematici, supera QwQ-32-Preview di Alibaba (che ha 32 miliardi di parametri) nel ragionamento logico, e surclassa DeepSeek-Distill-7B-RL nella generazione di codice. Il tutto con un modello che occupa meno spazio di una app di fotoritocco professionale. Troppo bello per essere vero?
Continuando il paragone con i pugili, il segreto di questo Rocky cinese sta nell’allenamento. Come un pugile che si prepara per mesi studiando ogni mossa dell’avversario, gli ingegneri di Xiaomi hanno creato dataset specializzati con 200 miliardi di token focalizzati su matematica e logica. Hanno poi addestrato MiMo su 25 trilioni di token totali, usando una tecnica chiamata Multiple-Token Prediction che permette al modello di “pensare” a più passaggi logici contemporaneamente. Il risultato è un’AI che nei test MATH-500 raggiunge il 95,8% di risposte corrette, mentre nei problemi AIME 2024 tocca il 68,2%. Se vi sembrano benchmark incomprensibili, aspettate perché il meglio deve ancora venire.L’aspetto più interessante, infatti, non sono i numeri. È la strategia. Xiaomi ha reso MiMo open source e lo sta integrando in tutti i suoi dispositivi. Alla faccia del tumore del mondo software, come diceva il buon Ballmer. Dall’ultimo smartphone di punta, lo Xiaomi 15 Ultra lanciato a marzo 2025, fino alle auto e agli elettrodomestici smart, passando per tablet e wearable, tutti avranno il loro MiMo “open”. Che potremo anche scaricare in locale e far girare sul nostro computer (più o meno). L’obiettivo è creare un ecosistema dove l’AI non è un servizio cloud che richiede connessione costante, ma un’intelligenza distribuita che vive nei dispositivi stessi.
È la mossa definitiva per mandare in pensione la strategia di OpenAI (e soprattutto di Sam Altman) di creare centinaia di costosissimi datacenter in tutto il mondo? Addirittura, ci possiamo chiedere se non sia la mossa che fa lo sgambetto sia ai palazzinari dei centri di calcolo che ai produttori di server da mettere nei rack “dietro le quinte”. Cambiano le regole del gioco, se è vero che l’Unione eureopea e i grandi fondi di investimento americani hanno firmato assegni miliardari (in euro e dollari) praticamente in bianco al primo che passava con un progetto per aprire da qui a tre anni un datacenter grande come un campo di calcio, come un laghetto, come un quartiere di una città. Tutto inutile adesso?
La frammentazione che cambia tutto
Se dobbiamo sbilanciarci, potremmo farlo alla luce di altre informazioni collegate. Infatti, questa mossa di Xiaomi non è isolata. Samsung sta sviluppando Gauss, la sua AI proprietaria. Apple ha la sua versione di intelligenza artificiale generativa profondamente integrata in iOS (ammesso che riesca a vedere la luce in una istanza utile per gli utenti). Google spinge Gemini nei Pixel (e non solo). OPPO, Vivo, Honor, OnePlus: tutti i principali produttori di smartphone stanno creando le proprie AI. Il risultato sarà un mercato frammentato dove ogni marca avrà la sua intelligenza artificiale, ottimizzata per il proprio hardware e ecosistema.
È uno scenario che ricorda i primi anni di Android, quando ogni produttore personalizzava il sistema operativo a modo suo. Ma questa volta le conseguenze sono più profonde. Un’AI non è solo un’interfaccia o un set di app: è il modo in cui il dispositivo comprende, elabora e risponde alle richieste dell’utente. È la differenza tra un telefono che esegue comandi e uno che anticipa bisogni. Soprattutto, è fondamentale che sia integrata verticalmente con il dispositivo, ma che sia anche legata all’utente, altrimenti non impara e non si personalizza. Altrimenti, potremmo dire, non ha più senso comprare un determinato telefono rispetto a un altro.
Invece, la frammentazione porta vantaggi evidenti. Ogni AI può essere ottimizzata per l’hardware specifico, garantendo prestazioni migliori e minor consumo di batteria. I dati possono rimanere sul dispositivo, migliorando la privacy e al tempo stesso imparando di più sulla persona. E poi un po’ di sana competizione stimola l’innovazione, con ogni produttore che cerca di superare gli altri con funzionalità uniche.
Ma ci sono anche sfide significative. Gli sviluppatori dovranno creare app compatibili con decine di AI diverse. E questo è un problema gigantesco, a meno che non si sposi la tesi che l’AI sia la fine della app economy, cioè che faccia fuori il bisogno di app specializzate perché ci pensa il ChatGPT di turno a trasformare un database in un software applicativo sofisticato e fatto su misura per rispondere alle domande del suo “padrone”.
Ancora, se ogni smartphone ha la sua AI, gli utenti che cambiano marca di smartphone dovranno reimparare come interagire con l’assistente digitale che sarà a sua volta cambiato. L’interoperabilità tra dispositivi di marche diverse diventerà un incubo. E poi c’è il rischio del lock-in: una volta che tutti i propri dispositivi parlano la stessa “lingua AI”, cambiare ecosistema diventa sempre più difficile.
Un futuro con molti vincitori (o nessuno)
In questo scenario emergono tre possibili futuri. Nel primo, ogni produttore conquista la sua nicchia di mercato con un’AI specializzata. Xiaomi domina in Asia con MiMo, Samsung in Corea e parti dell’Europa con Gauss, Apple mantiene il suo pubblico fedele con la sua AI premium. Google cerca di scavarsi una nicchia che tenga assieme gli utenti del Pixel e quelli che pagano per la suite di servizi di Google Cloud. È un mondo frammentato ma stabile, dove nessuno vince veramente ma tutti sopravvivono.
Nel secondo scenario, emerge uno standard de facto. Come è successo con Android, che da sistema operativo di Google è diventato la base comune per decine di produttori, potrebbe emergere un modello AI open source che tutti adottano e personalizzano. MiMo, essendo già open source, potrebbe essere un candidato per questo ruolo anche se francamente pare difficile che proprio Xiaomi sia l’azienda che vincerà la corsa alle AI. Però se la gioca, e se ha ragione nel sostenere che l’integrazione verticale, l’open source e l’offline siano le mosse vincenti, potrebbe incassare un premio enorme.
Nel terzo scenario, i grandi player del cloud, vale a dire OpenAI e Microsoft, Google, forse Amazon, finiscono per dominare il mercato. I produttori di hardware, stanchi di investire miliardi nello sviluppo di AI proprietarie, si arrendono e iniziano a licenziare i modelli dei giganti tech. Si torna così a un modello centralizzato, dove l’intelligenza risiede nel cloud e i dispositivi sono solo terminali.
Quale scenario si realizzerà? Secondo noi molto dipenderà dai prossimi 12-18 mesi. Se modelli come MiMo continueranno a “boxare sopra il loro peso“, dimostrando che AI più piccole e specializzate possono competere con i colossi, la frammentazione potrebbe diventare la norma. Ma se i vantaggi di scala dei grandi modelli cloud si riveleranno insormontabili, assisteremo a una nuova centralizzazione.
L’intelligenza artificiale come il nuovo processore
Non finisce qui, Perché quello che sta succedendo con l’AI ricorda l’evoluzione dei processori negli anni ’90 e 2000. Anche allora ogni produttore voleva il suo chip: Intel, AMD, IBM, Motorola, ARM. Oggi ARM domina nel mobile, Intel e AMD si spartiscono il desktop, e ognuno ha trovato la sua nicchia. L’AI sta seguendo un percorso simile, ma con una differenza fondamentale: mentre un processore è invisibile all’utente finale, l’AI determina l’intera esperienza d’uso.
MiMo rappresenta perfettamente questa nuova era. Non è solo un modello di linguaggio: è il cervello digitale che Xiaomi vuole mettere in ogni dispositivo che produce. E se riesce davvero a mantenere le prestazioni attuali – battendo modelli cinque volte più grandi – potrebbe cambiare le regole del gioco. È una vera rivoluzione. Sta facendo quello che i mercati avevano pensato in prima battuta potesse fare DeepSeek con il suo modello DeepSeek-V3 salvo poi scoprire che non era tutto oro quel che luccicava. Ecco, se invece Xiaomi ci riesce davvero, le cose potrebbero prendere tutta un’altra piega.
La vera domanda non è chi vincerà questa guerra delle AI. Invece, la vera domanda è se gli utenti noteranno davvero la differenza. In fondo, che l’assistente vocale che risponde alle domande si chiami MiMo, Gauss o Siri, quello che conta è che funzioni. E forse, il vero vincitore sarà chi riuscirà a far dimenticare agli utenti che stanno interagendo con un’intelligenza artificiale. Ma mentre tutti si interrogano sul futuro, Xiaomi sta per mettere MiMo in milioni di dispositivi. Perché non dobbiamo dimenticarci che la vera forza di questi conglomerati cinesi è che, come prima di loro quelli coreani e quelli giapponesi, sono in grado di indirizzare tutti i settori dell’elettronica. E quando ogni frigorifero, ogni smartphone, ogni smartwatch parlerà la stessa lingua AI, forse la frammentazione non sembrerà più un problema. Sembrerà solo il modo naturale in cui l’intelligenza artificiale si è evoluta: non un unico cervello gigante, ma miliardi di piccole intelligenze specializzate, ognuna perfetta per il suo compito specifico. Un sistema distribuito.
La battaglia dei benchmark e la guerra delle percezioni
Il dubbio però è se è vero che MiMo funziona come annunciato. Dietro i numeri impressionanti di MiMo si potrebbe nascondere, infatti, una verità più complessa. Alcuni critici hanno sottolineato che i benchmark utilizzati da Xiaomi potrebbero essere scelti “su misura”, come il famoso “cherrypicking”, la raccolta delle ciliegie che si fa a mano, un frutto alla volta. I critici dicono insomma che i benchmark potrebbero essere stati scelti appositamente per evidenziare i punti di forza del loro modello. È una pratica non insolita nel settore: ogni azienda tende a presentare i risultati che la fanno apparire migliore. Ma nel caso di MiMo, anche test indipendenti hanno confermato prestazioni sorprendenti, specialmente nel ragionamento matematico e nella generazione di codice.
La vera sfida per Xiaomi sarà mantenere queste prestazioni nel mondo reale. Una cosa è brillare nei test standardizzati, un’altra è gestire le richieste imprevedibili degli utenti quotidiani. Anche perch gli utenti sono centinaia di milioni e costituiscono il test QA più duro di tutti: arrivano e provano tantissime varianti diverse e mai immaginate, fino a che non riescono a mandare in tilt qualsiasi sistema. OpenAI e Google hanno anni di esperienza nell’affrontare query bizzarre, richieste ambigue e contesti culturali diversi. MiMo dovrà dimostrare di saper gestire questa complessità senza perdere la sua efficienza caratteristica.
C’è poi la questione della lingua e della cultura. MiMo è stato sviluppato principalmente per il mercato cinese, con dataset che riflettono priorità e valori di quella società. L’espansione globale richiederà non solo traduzioni, ma una profonda comprensione delle sfumature culturali di ogni mercato. È una sfida che altri produttori cinesi hanno già affrontato con successo, ma nel campo dell’AI le insidie sono maggiori.
La risposta di Xiaomi a queste critiche è stata pragmatica: concentrarsi sui risultati concreti piuttosto che sulle discussioni teoriche. L’azienda ha reso il codice open source, invitando la comunità globale a testare, verificare e migliorare MiMo. È una mossa che dimostra fiducia nel proprio prodotto e che potrebbe accelerare lo sviluppo attraverso il contributo di migliaia di sviluppatori indipendenti.
L’effetto domino sull’industria tecnologica
Quali sono le conclusioni che si possono trarre? L’arrivo di MiMo sta già provocando onde d’urto nell’industria. Qualcomm ha annunciato nuovi chip ottimizzati per l’esecuzione di modelli AI locali, MediaTek sta accelerando lo sviluppo dei suoi processori AI, e perfino Apple (tradizionalmente chiusa) sta valutando partnership strategiche come buona ultima quella in ponte con Anthropic, ad esempio. Il messaggio è chiaro: l’AI on-device non è più un’opzione, invece è diventata una necessità competitiva.
Questo spostamento di asse sta anche cambiando anche le dinamiche del mercato degli smartphone. Per anni, la battaglia si è combattuta su fotocamere, schermi e batterie. Ora il nuovo campo di battaglia sta diventando l’intelligenza artificiale integrata. I consumatori iniziano a valutare i telefoni non solo per i megapixel o i gigahertz, ma per quanto “intelligente” sia l’assistente integrato. Le implicazioni vanno oltre gli smartphone. Se ogni dispositivo avrà la sua AI specializzata, emergeranno nuove categorie di prodotti. Immaginate occhiali smart con AI per il riconoscimento visivo in tempo reale, auricolari che traducono simultaneamente conversazioni in lingue diverse, o smartwatch che monitorano la salute con precisione medica. Ognuno con la sua piccola AI ottimizzata per quella specifica funzione.
Il rischio è che questa proliferazione crei un ecosistema ancora più frammentato di quello attuale. L’antitrust soprattutto nell’Unione europea potrebbe essere entusiasta, oppure cominciare a “sparare” multe a destra e a manca, se vede i colossi come Apple e Google muoversi in questo terreno. Oppure quello americano potrebbe chiedere la divisione dei big del tech, con misure per fare spin-off di interi rami d’azienda. Ma potrebbe anche essere l’inizio di una nuova era di specializzazione, dove invece di pochi modelli generalisti avremo migliaia di AI esperte, ognuna eccellente nel suo campo specifico. È un futuro che rispecchia meglio la natura stessa dell’intelligenza: distribuita, specializzata, interconnessa. Ma soprattutto, imprevedibile.
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