E se l’accordo tra Disney e OpenAI non fosse solo quello che molti stanno leggendo come l’ennesima prova di un’industria culturale pronta a sacrificare i creatori sull’altare dell’intelligenza artificiale?
A chiederselo è Diego Dimalta, Founding Partner di BSD Legal. Polemiche, allarmi, accuse di tradimento. Tutto già visto. Eppure, “fermarsi a questa lettura significa perdere il punto. Perché questo accordo non è solo una questione di licenze, investimenti o tecnologia. È, prima di tutto, il riconoscimento esplicito che il mondo è già cambiato — e che opporsi alla marea non è più una strategia, ma un’illusione”, spiega Dimalta.
Non a caso, l’intesa nasce come una sperimentazione limitata nel tempo. Un mese. Un perimetro controllato. Un test. Un dettaglio che molti citano per ridimensionarne la portata, ma che in realtà racconta molto, a mio avviso, della natura dell’operazione: non un salto nel vuoto, bensì un ingresso misurato in un territorio che Disney sa di non poter più ignorare.
Disney lo sa bene
Da quando “Disney” non era ancora una corporation ma il cognome di Walt, la difesa della proprietà intellettuale è stata una vera e propria religione. A tal punto da influenzare direttamente la legislazione americana sul diritto d’autore, estendendo per decenni l’ingresso delle opere nel pubblico dominio. Un approccio rigido, inflessibile, quasi ossessivo.
Fino ad oggi
Perché se è vero che Disney è sempre stata gelosa dei suoi personaggi, è altrettanto vero che è sempre stata un’azienda capace di leggere il futuro prima degli altri. Il primo lungometraggio animato, la prima grande serialità televisiva a budget elevato, il primo servizio di streaming globale. Ogni volta, la stessa scelta: non subire il cambiamento, ma guidarlo.

L’intelligenza artificiale non fa eccezione
È ingenuo fingere che i sistemi di AI non abbiano già “imparato” lo stile Disney. Basta chiedere a qualsiasi generatore di immagini o testi. La differenza, oggi, non sta nell’uso — che è già avvenuto — ma nella legittimazione.
Con questo accordo, Disney non sta concedendo qualcosa che prima non esisteva. Sta mettendo un perimetro, una cornice industriale e culturale, attorno a un fenomeno che è già realtà. Ed è qui che l’operazione diventa davvero interessante.
Perché Disney non si limita a concedere licenze: investe. Entra nel capitale. Si posiziona. Scommette. Non tanto su OpenAI in sé, quanto su ciò che rappresenta: un nuovo modo di produrre, distribuire evivere l’intrattenimento.
“Non scrivo da esperto di cinema, ma da osservatore dei processi giuridici e industriali che ne stanno ridisegnando i confini. Ed è seguendo l’evoluzione del diritto, delle licenze e dei dei modelli di responsabilità che emerge con chiarezza un’ipotesi ancora poco esplicitata nel dibattito pubblico”, riferisce Dimalta.
“Non si tratta solo di AI applicata al cinema. Non si tratta solo di licensing.Si tratta, potenzialmente, di cinema come linguaggio partecipativo, legittimato da IP mainstream globali. L’intuizione è semplice e, allo stesso tempo, radicale: le persone non saranno più solo spettatori. Si creeranno i loro film. I loro corti. Le loro storie. Usando personaggi che già amano, già conoscono, già sentono propri. Non più fan art ai margini, ma produzione partecipativa all’interno di un perimetro industriale riconosciuto”.
“Il cinema — o almeno una parte dell’intrattenimento — diventa così partecipativo. Domestico. Sociale. E Disney vuole essere lì, non a guardare, ma a fornire gli strumenti”.
“Questo solleva interrogativi enormi, certo. Sul ruolo degli autori, sul valore dell’originalità, sui diritti”.
“Ma ignorare la direzione non li risolve. Governarla, forse sì. In un’epoca in cui molti scelgono di difendere il passato fino a renderlo sterile, Disney fa quello che ha
sempre fatto nei momenti cruciali: accetta che il paradigma sia cambiato e decide di stare in prima fila. Non è una resa. È una resa intelligente”.
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