Immaginatevi la scena, perché probabilmente è simile a quella di casa vostra o di qualche vostro amico. Nel cassetto del comodino giace un iPod che non viene acceso più da anni: forse è rotto, ma nessuno ha il coraggio di buttarlo. In soffitta, sono impilati scatoloni di DVD nonostante Netflix, Prime Video e Disney+ abbiano ormai colonizzato il salotto. In soffitta, un giradischi d’annata aspetta pazientemente di essere riscoperto durante il prossimo trasloco. Questa non è semplicemente disorganizzazione domestica, ma il riflesso di un fenomeno culturale più profondo che attraversa l’Occidente: l’incapacità di abbandonare il passato in un presente che ha smesso di promettere futuri migliori.
Un recente sondaggio di Consumer Reports ha rivelato numeri sorprendenti: il 45% degli americani ascolta ancora CD, il 20% usa vinili, e quasi la metà guarda film in DVD o Blu-ray. Circa il 15% utilizza ancora musicassette, mentre il 14% si diverte con console di videogiochi pre-2000. Queste non sono semplici statistiche sul consumo tecnologico, ma indizi di un malessere contemporaneo che il filosofo Mark Fisher ha brillantemente definito “realismo capitalista”: quell’atmosfera pervasiva che ci impedisce di immaginare alternative al presente, spingendoci a rifugiarci in un passato idealizzato.
La tecnologia avanza inesorabilmente, eppure ci aggrappamo a oggetti che sembrano appartenere a un’altra era. I supporti fisici offrono certezze tattili in un’epoca di abbonamenti effimeri e cataloghi streaming che cambiano mensilmente. La concretezza di un vinile, con la sua copertina di grandi dimensioni e il rituale dell’ascolto, rappresenta un’ancora emotiva in un mare di playlist algoritmiche e raccomandazioni automatizzate che paradossalmente ci fanno sentire meno liberi di scegliere.

La nostalgia come merce
Il musicologo Simon Reynolds ha coniato il termine “retromania” per descrivere l’ossessione contemporanea per il riciclo culturale del passato. Non è solo una questione di supporti fisici, ma di un’estetica che permea cinema, musica, moda e design. I filtri Instagram che simulano pellicole analogiche, i videogiochi indie con grafica 8-bit, le serie TV ambientate negli anni ’80 sono tutti sintomi della stessa condizione: l’incapacità di immaginare forme estetiche autenticamente nuove.
L’industria ha fiutato l’affare, trasformando la nostalgia in un business redditizio. Vinili venduti a 35 euro nei supermercati, riedizioni di console vintage in formato mini, ristampe di colonne sonore su musicassetta: la nostalgia è stata perfettamente integrata nei meccanismi di mercato che dovrebbe teoricamente contestare. La contraddizione è evidente ma accettata: critichiamo il capitalismo digitale mentre acquistiamo feticci analogici prodotti dalle stesse multinazionali.
L’ironia della situazione non sfugge agli analisti: lo streaming doveva liberarci dall’ingombro fisico dei supporti, eppure molti scelgono deliberatamente di occupare spazio nelle proprie case. Il filosofo Franco “Bifo” Berardi parlerebbe di “lenta cancellazione del futuro” – un presente perpetuo dove l’innovazione è diventata così frenetica da apparire statica, spingendoci a cercare conforto in tecnologie che possiamo comprendere e controllare pienamente.
Il controllo nell’era dell’accesso
Il possesso fisico offre garanzie che nessun abbonamento può fornire. Il 48% degli americani che ancora guarda DVD e Blu-ray lo fa non solo per nostalgia, ma per pragmatismo: maggiore qualità audio-video, indipendenza dalla connessione internet, certezza che il film preferito non sparirà improvvisamente dal catalogo. È il controllo l’elemento che distingue il possesso dall’accesso, in un’epoca dove possedere sta diventando un lusso e un atto di resistenza culturale.
Le comunità di appassionati fioriscono online proprio mentre celebrano tecnologie offline. I “tapeheads” condividono su TikTok le loro collezioni di VHS, i vinilisti si confrontano su forum dedicati alle pressature migliori, gli amanti del retrogaming organizzano tornei con console di trent’anni fa. Si crea così il paradosso di usare le più moderne tecnologie di comunicazione per celebrare forme mediali che quelle stesse tecnologie hanno reso obsolete.
La permanenza è diventata un valore raro in un mondo di aggiornamenti costanti e obsolescenza programmata. Un vinile ben conservato dura cinquant’anni, un libro stampato secoli, mentre i file digitali richiedono migrazione continua da un formato all’altro e da un dispositivo all’altro. Dietro la scelta di supporti fisici si nasconde anche una riflessione sulla durata e sull’eredità: cosa resterà dei nostri account streaming quando non ci saremo più?
Resistenza o regressione?
Il ritorno al fisico può essere letto come forma di resistenza al capitalismo della sorveglianza. Ascoltare un vinile significa creare una bolla temporale dove algoritmi e cookie non possono seguirci, dove l’esperienza rimane privata e non diventa dato da monetizzare. In questo senso, l’analogico diventa politico, un rifiuto silenzioso di partecipare all’estrazione continua di valore dalle nostre abitudini di consumo culturale.
Eppure, questa resistenza rischia di trasformarsi in una forma di regressione nostalgica che impedisce di immaginare futuri alternativi. Il pericolo, come avvertiva Fisher, è confondere la critica al presente con la romanticizzazione del passato. La nostalgia può essere una trappola cognitiva che ci fa idealizzare epoche che, a uno sguardo più attento, erano spesso più problematiche dell’attuale.
L’attaccamento ai supporti fisici rivela una verità scomoda sul nostro rapporto con la tecnologia: non sempre il nuovo rappresenta un miglioramento. La qualità dell’ascolto in vinile, la serendipità dello sfogliare una collezione di DVD, la fisicità di una console vintage offrono esperienze che i loro equivalenti digitali non hanno saputo replicare completamente, rivelando come il progresso tecnologico talvolta sacrifichi valori esperienziali in nome dell’efficienza.
Il futuro dei supporti fisici paradossalmente sembra più luminoso di quanto i profeti della digitalizzazione avessero previsto. Non sono scomparsi, ma si sono trasformati: da prodotti di massa a oggetti di nicchia, da contenitori di informazioni a simboli culturali, da necessità a scelte consapevoli. In questo slittamento semantico si legge forse la più grande critica al presente: l’incapacità di creare un futuro in cui il progresso tecnologico e la ricchezza dell’esperienza umana possano coesistere senza sacrificare l’uno all’altra.


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