La Cina la pensa come Trump: l’India non deve avere la produzione degli iPhone. Il piano di Apple di spostare progressivamente la produzione degli iPhone nel sub continente che il presidente americano non approva, viene sabotato anche dalla Repubblica Popolare che richiama in patria 300 figure chiave nella formazione e nel supporto operativo degli stabilimenti di Foxconn aperti in India e da cui dovrebbero presto uscire la stragrande maggioranza dei telefoni Apple per il mercato USA.
Cina elefante nella stanza
Il segnale, come riporta Bloomberg, è preoccupante per Apple per molti motivi. La ricaduta immediata più importante riguarda la capacità di ottenere dagli stabilimenti indiani volumi paragonabili a quelli che arrivano dalla Cina.
Gli ingegneri cinesi sono parte integrante del successo industriale degli iPhone: supervisionano la produzione, istruiscono il personale e risolvono problemi in tempo reale. Portarli in India serviva proprio a “trapiantare” quella competenza.
Anche se il ritorno a casa dei dipendenti cinesi non dovrebbe avere un impatto diretto sulla qualità, rischia di avere conseguenze importanti sulla resa produttiva. Un problema serio, proprio mentre Apple ha bisogno di rifornire il mercato locale e di produrre nel subcontinente la maggior parte degli iPhone destinati agli Stati Uniti, entro la fine del 2026, per evitare la tagliola dei dazi.
La ragione per cui la Cina rende sempre più difficile l’export di tecnologie, macchinari specializzati e, soprattutto, di forza lavoro qualificata ha radici economiche e geopolitiche sono facilmente intuibili. Il Paese del Dragone non ha alcuna intenzione di abdicare al ruolo di hub mondiale per la produzione dell’elettronica, cedendolo per giunta all’India, con cui ha un rapporto storico travagliato, segnato anche da conflitti di confine.
La Cina governa Apple
Difficile capire quanto la Cina possa davvero influenzare le scelte strategiche di Apple, ma è abbastanza certo che ha la forza per rallentarle e renderle più complicate. Lo dimostra proprio il ritiro degli ingegneri cinesi dalle fabbriche indiane, che rischia di indebolire l’intera struttura del progetto di rilocalizzazione. La vicenda mostra anche con chiarezza anche che Apple, per quanto potente, è esposta a dinamiche che non controlla interamente.
In particolare sua strategia industriale è letteralmente in balia della Cina, tesi dell’interessante libro inchiesa Apple in China, non solo per la dipendenza produttiva – volumi, tempi, qualità – ma anche per il peso del mercato interno cinese, che vale da solo circa il 20% del fatturato globale.
C’è poi un altro fronte ancora più insidioso: tutto ciò che Apple ha trasferito in Cina in termini di know-how, processi, organizzazione e standard produttivi è stato assorbito e trasformato in vantaggio competitivo dai produttori locali, che oggi – con il supporto esplicito del governo – stanno alzando l’asticella.
Marchi come Huawei, Xiaomi e Honor non solo sono pronti a scalzare Apple dal mercato cinese dei dispositivi di fascia alta, ma si preparano a invadere il mercato globale con prodotti sempre più competitivi e costruiti secondo le stesse logiche industriali apprese nei lunghi anni di partnership e osservazione.

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