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I nuovi imperatori digitali e la loro Roma di cartone, tra filosofia e business

Siamo al 20 gennaio 2025, l’insediamento di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti. Di nuovo. Elon Musk alza il braccio destro in quello che molti interpretano come un saluto nazista, scatenando polemiche planetarie. I suoi difensori si affrettano a spiegare: “Non è un saluto nazista, è un omaggio alla romanità“. L’episodio è l’ennesima manifestazione di una tendenza sempre più diffusa tra i big tech: l’ossessione per l’antichità classica. Ma cosa c’è davvero dietro questa mania di citare imperatori e filosofi morti duemila anni fa che venivano dalla Grecia e dall’Italia?

Non si tratta di qualche gesto ambiguo o di un paio di frasi messe lì “perché fa fino” da qualche ghost writer con studi classici alle spalle. Invece, il fenomeno è documentato e pervasivo. Musk dichiara pubblicamente di pensare ogni giorno all’Impero Romano (è partito anche il meme sui social, un po’ di tempo fa), cita Silla come esempio di leadership e consiglia di leggere il “De bello gallico” di Giulio Cesare. Mark Zuckerberg è ossessionato da Augusto, indossa magliette con citazioni latine durante i keynote e sfoggia un taglio di capelli “alla Tiberio”. Jeff Bezos possiede uno yacht da 500 milioni di dollari che sarebbe stato degno di Caligola e battezza i suoi progetti più controversi con nomi epici come “Iliad”.

La proposta più surreale è stata la sfida gladiatoria tra Musk e Zuckerberg, con tanto di location nel Colosseo. Quello vero di Roma, non quello fake di Las Vegas. Sfida mai realizzata, ma perfetta metafora di come questi nuovi Cesari della tecnologia (espressione che piace molto più di “technobro” ai diretti interessati) amino spettacolarizzare la loro presunta connessione con la grandezza antica. L’uso di simboli e citazioni romane serve a costruire una narrazione di continuità storica, legittimando il loro ruolo di “imperatori” dell’era digitale.

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Marco Aurelio secondo Elon: quando lo stoicismo diventa self-help

Se lo leggono sul loro Kindle, ovviamente in inglese perché Marco Aurelio scriveva “a se stesso” in greco, la lingua che padroneggiava fin da bambino e aveva imparato dalla madre. L’imperatore filosofo scriveva nelle sue “Meditazioni”: “Quello che porta turbamento all’uomo non sono i fatti in sé, ma le opinioni sui fatti“. Una riflessione profonda sulla natura della percezione e della sofferenza umana.

Nella versione Silicon Valley, questa saggezza millenaria diventa resilienza da CEO, capacità di “accettare il destino” del mercato senza farsi sopraffare dalle emozioni. Amare i traditori del consiglio di amministrazione che ti accoltellano alle spalle: proprio come Bruto e gli altri congiurati fecero tutt’altro che metaforicamente a Giulio Cesare. La resilienza da CEO è la trasformazione di una filosofia complessa in un manuale motivazionale per manager.

Gli stoici predicavano che il saggio dovesse partecipare attivamente alla vita pubblica per il bene comune, non per l’arricchimento personale. Marco Aurelio governava un impero ma viveva con austerità (la sua idea di cosa fare delle ricchezze e del sesso oggi sarebbe al limite di un TSO), convinto che la virtù risiedesse nel servizio alla comunità. Seneca, il filosofo della moderazione, è stato anche un grande investitore che ha accumulato ricchezze enormi diventando uno degli uomini più ricchi di Roma: un paradosso che i magnati moderni sembrano aver risolto citandolo come giustificazione del proprio successo. La filosofia stoica viene così ridotta a una tecnica di sopportazione delle avversità aziendali, tradendo completamente il suo spirito originario.

L’ironia è che Seneca stesso era consapevole di questa contraddizione, scrivendo lettere piene di sensi di colpa per la propria ricchezza. I nuovi stoici della Silicon Valley non sembrano tormentati da simili dubbi: usano la filosofia antica come verniciatura intellettuale per giustificare accumuli di capitale senza precedenti. Il distacco dalle passioni predicato dagli antichi diventa freddezza calcolatrice negli affari, l’accettazione del destino si trasforma in rassegnazione dei lavoratori alle decisioni del management.

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Mark Zuckerberg – Foto: Anthony Quintano – Wikipedia

Zuckerberg e la sindrome di Augusto

Mark Zuckerberg è l’unico tra i magnati tech, assieme a Peter Thiel, ad aver davvero studiato latino al liceo, ottenendo ottimi risultati nelle lingue antiche. Si diceva troppo timido per studiare le lingue moderne e allora si era buttato in quelle morte. La sua competenza linguistica sembra essere documentata e autentica (anche se a dire il vero si è messo poi a studiare cinese da adulto per compiacere il mercato asiatico ma con risultati piuttosto limitati, nonostante l’aiuto della moglie, che è madrelingua mandarino), a differenza di molti colleghi che improvvisano citazioni di seconda mano.

Durante la sua visita in Italia ha dichiarato che lo studio del latino lo ha aiutato a sviluppare capacità di ragionamento e analisi. Alla faccia di tutti quelli che in Italia dicono che il liceo classico (che praticamente non esiste da nessun’altra parte al mondo) sia perfettamente inutile. L’interesse per la cultura classica si riflette nella sua ammirazione per Augusto, l’imperatore che ha portato stabilità dopo le guerre civili anche se in maniera decisamente cruenta.

La fascinazione per il primo imperatore romano non è casuale: Zuckerberg vede in lui un modello di “riformatore stabilizzatore” capace di guidare trasformazioni epocali. Durante l’annuncio di Llama 3.1 ha indossato una maglietta con una citazione di Augusto, sottolineando il parallelismo tra intelligenza artificiale e “imperium” romano.

I dettagli simbolici si moltiplicano: dall’acconciatura che ricorda i busti imperiali all’uso strategico di riferimenti latini nelle presentazioni dei nuovi prodotti. Zuckerber non ama tanto gli stoici quanto gli epicurei, l’altra grande corrente filosofica che risale a Epicuro e che era all’antitesi della visione di Marco Aurelio e di Seneca. Tanto che ad esempio Cicerone, nella sua corrispondenza con l’amico Attico (figura affascinante di editore, investitore e private banker della Roma di Cesare), torna più volte sul contrasto tra queste due visioni, una antitetica all’altra, una utile per la vita pubblica e l’altra assolutamente in opposizione.

Dunque, se quella di Zuckerberg è un’operazione di personal branding che utilizza l’autorità dell’antichità per legittimare la propria visione di leadership tecnologica, porta con sé anche una dose di contraddizione. Infatti, il paradosso è evidente: chi ha fondato il social network più invasivo della storia cita filosofi che predicavano il “vivi nascosto”. Epicuro sosteneva che la felicità si raggiungesse attraverso l’atarassia, l’assenza di turbamento, evitando la vita pubblica e politica. Il suo celebre motto (in greco) “làthe biōsas“, vivi nascosto, invitava a una vita riservata, lontana dai clamori del mondo. Zuckerberg ha reso pubblica l’esistenza di miliardi di persone, ma dice di ispirarsi a un pensatore che considerava la privacy totale l’essenza della saggezza.

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I “filosofi-re” del digitale

Perché succede tutto questo? Volendo semplificare, è una applicazione astorica del modello platonico del “filosofo-re“. Questa idea in effetti echeggia nelle dichiarazioni di molti magnati tech: chi possiede la conoscenza ha il diritto-dovere di governare. È un’autolegittimazione che trasforma l’elitarismo in virtù civica, la concentrazione di potere in necessità storica.

Peter Thiel, con la sua formazione classica documentata, cita spesso Platone per giustificare visioni apertamente antidemocratiche. Marc Andreessen usa metafore imperiali per spiegare le dinamiche del “dominio tecnologico”, come se la Silicon Valley fosse l’erede naturale delle grandi civiltà del passato.

Il paradosso democratico è stridente: usare i padri della democrazia ateniese per giustificare il tecno-autoritarismo. Platone era critico verso la democrazia (che peraltro era un’idea molto distante dal sistema rappresentativo che abbiamo oggi). Tuttavia, con la sua “Repubblica”, Platone ha fatto un esperimento mentale, non un programma politico per miliardari del XXI secolo.

Gli stoici romani predicavano la partecipazione alla vita pubblica, ma intendevano il servizio disinteressato alla comunità, non l’imposizione di visioni personali attraverso monopoli tecnologici. La differenza tra filosofia e opportunismo sembra sfuggire a chi trasforma ogni citazione antica in giustificazione del proprio potere.

Reid Hoffman, cofondatore di LinkedIn, fa frequenti riferimenti alla saggezza classica nei suoi podcast, sostenendo che resilienza e adattamento sono virtù fondamentali dell’imprenditore moderno. Il salto logico è sempre lo stesso: da virtù personale a legittimazione di pratiche aziendali discutibili. Trasformare l’amore per la sapienza in massime di self-help. La filosofia antica diventa il migliore alleato del capitalismo selvaggio, tradendo completamente lo spirito originario di pensatori che mettevano l’etica al centro della riflessione.

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Screenshot

Il business della saggezza antica

Questo è quello che accade con i “leader”. Ma cosa succede con i “follower”, le migliaia di manager e dirigenti del mondo tech in corsa per farsi notare su LinkedIn, che costruiscono un’immagine di vincenti anche accettando e partecipando ai tic e alle manie dei maschi alfa del loro mondo?

Per loro le “Meditazioni” di Marco Aurelio e le “Lettere” di Seneca sono diventate bestseller nelle versioni ridotte per manager. È finita l’epoca della via del samurai o dell’arte cinese della guerra, basta metafore napoleoniche e schemi vittoriosi ricavati dallo sbarco in Normadia. Attentendo un’epoca di citazioni di spietati generali assiri, sumeri e ittiti o di aggressivi guerrieri aztechi e maya, oggi è un bomba libera tutti con gli antichi greci e romani.

Così, librerie aziendali traboccano di manuali che promettono di trasformare chiunque in un leader stoico in dieci semplici passi. La riduzione di millenni di pensiero filosofico a slogan motivazionali rappresenta forse il tradimento più evidente dello spirito antico. Marco Aurelio scriveva per se stesso, non per vendere corsi di leadership; Seneca rifletteva sui paradossi della ricchezza, non li celebrava.

La citazione decontestualizzata diventa lo strumento preferito di questa operazione culturale. “Alzati al mattino e dì a te stesso: oggi avrò a che fare con persone indiscrete, ingrate, insolenti” viene usata per giustificare spietatezza negli affari, ignorando che Marco Aurelio continuava invitando alla pazienza e comprensione. Jeff Bezos battezza “Project Iliad” i suoi progetti più controversi, evocando l’epica omerica per nobilitare operazioni di puro business. L’ironia è che l’uomo che ha distrutto il commercio tradizionale cita l’epos della guerra come se fosse un paladino della civiltà.

Tanto per guardare i dettagli: lo yacht di Bezos, costato 500 milioni di dollari, è stato descritto dai media come “degno di Caligola”. Il paragone è involontariamente perfetto: l’imperatore romano noto per gli eccessi e la megalomania diventa termine di confronto per l’ostentazione moderna. La differenza è che Caligola non citava filosofi per giustificare le sue follie, mentre i nuovi ricchi americani trasformano ogni capriccio in missione civilizzatrice.

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Steve Jobs. Foto di Steve Jobs Archive

Steve Jobs: l’eccezione che conferma la regola

Perdonateci se torniamo ai classici, ma siamo pur sempre un sito di news e commenti che racconta da quasi trent’anni la traiettoria di Apple. Per questo dobbiamo notare che tra i big della tecnologia Steve Jobs rappresenta l’eccezione più significativa: nessuna ossessione per Roma, nessuna citazione di imperatori. La sua fascinazione era rivolta piuttosto al buddhismo zen e alla spiritualità orientale, che hanno ispirato l’approccio minimalista al design e alla vita personale.

Steve Jobs rivendicava una cultura hippie e il suo viaggio formativo in India, la pratica della meditazione, l’estetica zen. Sono tutti elementi centrali della sua biografia, molto più dei classici occidentali. Jobs cercava l’illuminazione attraverso la semplicità, non la legittimazione attraverso l’autorità antica.

La differenza è filosoficamente rilevante: mentre i suoi colleghi cercano modelli di potere nel passato, Jobs guardava a tradizioni che predicavano il distacco dal potere. Il buddhismo zen enfatizza l’intuizione e l’autenticità, non l’imitazione di modelli esterni. Non a caso, Jobs non ha mai sentito il bisogno di vestirsi da imperatore per convincere il mondo della propria grandezza. La sua eredità dimostra che si può cambiare il mondo senza citare Giulio Cesare o indossare magliette con scritte latine.

Questa eccezione illumina la natura puramente strumentale dell’uso della filosofia classica da parte degli altri magnati. Non si tratta di autentica adesione a valori antichi, ma di sofisticata operazione di marketing personale. Jobs innovava attraverso l’intuizione; i suoi epigoni cercano di innovare attraverso l’autorità mutuata dal passato.

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Conclusioni: Marco Aurelio avrebbe twittato?

La domanda è inevitabile: cosa penserebbero davvero Seneca o Marco Aurelio di chi accumula miliardi citandoli? L’imperatore filosofo che scriveva “La ricchezza consiste non nell’avere grandi proprietà, ma nell’avere pochi desideri” difficilmente approverebbe patrimoni da 200 miliardi di dollari. Seneca, tormentato dai sensi di colpa per le proprie ricchezze, probabilmente si rivolterebbe nella tomba vedendo la propria filosofia usata per giustificare disuguaglianze senza precedenti. L’operazione culturale dei magnati tech è più marketing che vocazione filosofica, più teatro che autentica adesione a valori antichi.

Il rischio è che questa strumentalizzazione dell’antichità legittimi posizioni antidemocratiche con l’autorità di pensatori venerati. Quando miliardari non eletti citano Platone per giustificare il proprio diritto a decidere il futuro dell’umanità, la filosofia diventa complice involontaria di un nuovo autoritarismo. Marco Aurelio governava per diritto di nascita in un’epoca senza alternative democratiche; usare il suo esempio per legittimare tecnocrazie moderne è un tradimento sia della storia che della filosofia.

L’ironia finale è che i veri filosofi antichi, con la loro insistenza su virtù, moderazione e bene comune, probabilmente manderebbero questi nuovi imperatori all’inferno di Dante Alighieri. Ma quello, ovviamente, non lo citano mai.

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