Mesi di battaglia contro il Digital Markets Act (DMA) e adesso Apple alza ulteriormente il tiro. Secondo uno studio di Analysis Group commissionato dall’azienda di Cupertino, l’apertura forzata dell’ecosistema iPhone non ha portato alcun beneficio concreto ai consumatori europei. La promessa centrale della regolamentazione (più concorrenza uguale prezzi più bassi) non si sarebbe materializzata.
L’analisi ha esaminato 41 milioni di transazioni relative a oltre 21mila app tutte nell’Unione Europea. Il periodo preso in considerazione copre i tre mesi prima e dopo l’adozione dei nuovi termini commerciali alternativi introdotti da Apple a marzo 2024. Il risultato è netto: a circa il 91% dei prodotti osservati non sono stati abbassati i prezzi nonostante la riduzione delle commissioni. Invece, la riduzione media, nei casi in cui il prezzo è sceso, è stata del 2,5 per cento.
Difficile con questi numeri, dice Apple, sostenere che il nuovo assetto stia portando benefici tangibili alla cassa degli utenti. Anzi, in alcuni casi gli sviluppatori hanno persino aumentato i prezzi esclusivamente per i clienti dell’Unione Europea.
I numeri della rivoluzione mancata
Facciamo un passo indietro. Il DMA, cioè il Digital Markets Act ovvero la normativa europea che regolamenta i mercati digitali all’interno dell’Unione, ha etichettato Apple come gatekeeper imponendo cambiamenti pesanti al suo modus operandi. L’azienda ha dovuto aprire alla possibilità di store alternativi, offrire condizioni differenti sulle commissioni e garantire maggiore interoperabilità. L’assunto del legislatore europeo è semplice: più concorrenza nei canali di distribuzione uguale costi più bassi per gli sviluppatori e app meno care per gli utenti.
Apple ha aperto agli store terzi e ridotto le commissioni dal 30 al 17 per cento per i grandi sviluppatori, dal 15 al 10 per cento per i piccoli. Lo studio mostra che questi sviluppatori hanno pagato 20,1 milioni di euro in meno di commissioni nei tre mesi successivi all’adozione dei nuovi termini. Eppure, i prezzi per i consumatori sono rimasti praticamente invariati. Come mai?
Un caso emblematico arriva da una popolare app di incontri. A dicembre 2023 l’abbonamento costava 11,76 euro e lo sviluppatore pagava una commissione del 30 per cento ad Apple. Dopo l’adozione dei nuovi termini a marzo 2024, la commissione è scesa al 20 per cento, ma il prezzo dell’abbonamento è rimasto identico: 11,76 euro.
I precedenti storici
Non è la prima volta che Apple assiste a questo fenomeno. Quando l’azienda lanciò lo Small Business Program, riducendo le commissioni dal 30 al 15 per cento per decine di migliaia di piccoli sviluppatori, solo una minoranza ridusse i prezzi negli Stati Uniti. Lo stesso schema si è ripetuto con la riduzione delle commissioni per gli abbonamenti dopo il primo anno di sottoscrizione.
I cinque top sviluppatori nell’Unione Europea hanno mantenuto invariati i prezzi dei loro prodotti più popolari. Il gruppo include app di incontri, social networking e giochi. Nonostante una riduzione sostanziale della commissione, nessuno di loro ha scelto di trasmettere il risparmio ai consumatori.
La decisione di non abbassare i prezzi appare quindi come una costante, indipendente dal mercato geografico o dal tipo di app. Apple ricorda che la stragrande maggioranza degli sviluppatori non paga comunque commissioni perché adotta modelli gratuiti basati sulla pubblicità. Oltre il 90 per cento dell’ecosistema economico generato dall’App Store, stimato in 1.300 miliardi di dollari a livello globale (a calcolarlo è stato uno studio di due economisti, il professor Andrey Fradkin della Boston University Questrom School of Business e Jessica Burley di Analysis Group), va agli sviluppatori e ai merchant.
La controtesi degli sviluppatori
Molti sviluppatori controbattono alle accuse. La loro linea difensiva è che tengono parte del margine risparmiato per investire nel prodotto: nuove funzioni, migliori performance, supporto più efficace. Si tratterebbe quindi di un beneficio indiretto per l’utente, che ottiene un’app migliore anziché più economica.
È una posizione curiosa, perché Apple stessa aveva spinto questa narrazione quando lanciò lo Small Business Program. All’epoca l’azienda sosteneva che margini più alti per i piccoli sviluppatori avrebbero permesso loro di crescere meglio e innovare di più. Adesso la stessa argomentazione viene usata contro la tesi di Apple secondo cui il DMA dovrebbe portare prezzi più bassi.
La realtà potrebbe stare nel mezzo. Non tutti i mercati sono sensibili al prezzo e nel digitale spesso il valore percepito si gioca su aggiornamenti, qualità, community e supporto multi-piattaforma piuttosto che su 50 centesimi in meno. Interpretare i numeri richiede comunque molta prudenza: finestra temporale, mix di categorie e modelli di prezzo possono condizionare le conclusioni. Una normativa o un’analisi troppo generica rischiano di fare di ogni erba un fascio e portare a conseguenze imprevedibili o comunque non volute.
Chi ci guadagna davvero
Torniamo alle carte digitali. C’è un altro aspetto che emerge dallo studio, al quale secondo le agenzie stampa la Commissione europea non ha per adesso risposto.
Infatti, secondo Analysis Group oltre l’86 per cento dei risparmi sulle commissioni è andato a sviluppatori non europei. Dei 20,1 milioni di euro risparmiati in tre mesi, solo una piccola parte è rimasta a beneficio di aziende con sede nell’Unione Europea. Il DMA beneficia quindi principalmente società fuori dal perimetro comunitario.
Inoltre, Apple sostiene che il DMA stia generando meno sicurezza, meno privacy e un’esperienza peggiore per i consumatori europei. L’azienda ripete che la regolamentazione crea nuove barriere per innovatori e startup mentre espone i consumatori a nuovi rischi. La Commissione Europea aveva argomentato che ridurre le commissioni agli sviluppatori avrebbe portato automaticamente a prezzi più bassi per i consumatori. Lo studio dice di no.
Il rapporto è finanziato da Apple, ma Analysis Group è in realtà un nome di peso nella consulenza economica. La prudenza nell’interpretazione resta comunque necessaria. Le norme antitrust di tutto il mondo partono dal principio (sul quale c’è un ampio consenso) che più concorrenza porta più benefici ai consumatori, spesso in forma di prezzi più bassi: lo studio di Apple sostiene che finora questo collegamento non si vede. Dove sta la verità?


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