Chi arriva primo meglio alloggia. O forse no, almeno quando si parla di tecnologia e pubblica amministrazione. L’Italia ha lanciato IT Wallet nel 2025, anticipando di un anno l’arrivo del wallet digitale europeo e investendo 102 milioni di euro dal PNRR in questa scommessa tecnologica. Il sistema, integrato nell’app IO, consente già di conservare digitalmente patente di guida, tessera sanitaria e carta della disabilità con piena validità legale.
L’obiettivo dichiarato è trasformare lo smartphone nel portafoglio universale dei documenti personali, andando oltre la semplice Carta di Identità Elettronica o CIE. Tuttavia, la strada verso la piena operatività rimane ancora irta di ostacoli normativi e tecnici. E c’è il rischio concreto che il primo ad avere implementato la tecnologia sia costretto a rifare tutto perché non sarà quella la scelta definitiva.
Un wallet per domarli tutti
Il progetto italiano nasce dalla necessità di modernizzare la burocrazia e semplificare l’accesso ai servizi pubblici, ma si scontra con una realtà complessa. Mancano ancora i decreti attuativi fondamentali, in particolare il DPCM che dovrebbe definire le linee guida tecniche e gli standard di interoperabilità. Senza questo quadro normativo, il sistema non può espandere le proprie funzionalità oltre i documenti di base già disponibili.
Le limitazioni attuali riducono IT Wallet a una sorta di “vetrina digitale” dei documenti, utilizzabile per mostrarli ma non per accedere concretamente ai servizi online. In pratica, avere la patente nel wallet (ma non quello di Apple o di Google, per questioni di sicurezza, privacy e anche di scontro commerciale con gli Usa) serve, ma solo fino a un certo punto

La fase sperimentale ha evidenziato potenzialità interessanti, ma anche criticità significative che rallentano l’adozione su larga scala. Le aziende private mostrano interesse ma frenano gli investimenti a causa dell’incertezza sul futuro di SPID e CIE e della mancanza di chiarezza sul ruolo del wallet e quindi dell’app IO nel suo complesso.
Nei vertici dello stato e tra i dirigenti dei servizi pubblici che sono i principali architetti di questa trasformazione digitale non c’è accordo e forse, ma non abbiamo elementi in realtà per dirlo, dei veri e propri scontri tra visioni opposte di come fare le cose. Il risultato è che il mercato dell’identità digitale in Italia non ha ancora raggiunto la maturità necessaria per una diffusione capillare. Anche i sistemi di identificazione attualmente in uso crescono a ritmi contenuti, rallentando l’intero ecosistema digitale nazionale.
L’espansione programmata del wallet italiano prevederebbe anche l’integrazione di titoli di studio, attestati e qualifiche professionali nei “prossimi mesi” (indicazione generica e molto vaga). I tesserini degli ordini professionali e documenti specifici per i giovani rappresentano le prossime tappe di sviluppo del sistema.
Un medico, un ingegnere, non dovrebbe più portare con sé altra documentazione che quella contenuta nello smartphone per certificare il proprio ruolo. Uno studente avrebbe accesso alle strutture della scuola o universitarie, ma anche di altro genere (dalle biblioteche ai locali convenzionati fino agli sconti su treni e autobus) semplicemente con il telefonino.
L’obiettivo del sistema è creare un ecosistema digitale che semplifichi l’accesso a servizi pubblici e privati attraverso un’unica piattaforma. Tuttavia, il passaporto digitale rimane escluso dalle roadmap immediate, lasciando aperta una lacuna significativa per i viaggi internazionali. E anche a livello europeo le cose vanno tutt’altro che bene.
Le promesse del futuro digitale
Le opportunità offerte dal wallet digitale si estendono ben oltre la semplice conservazione dei documenti. I giovani potranno accedere rapidamente a servizi come iscrizioni scolastiche, richieste di borse di studio e agevolazioni varie senza dover portare fisicamente i documenti. Per i professionisti, la certificazione digitale dell’appartenenza agli albi semplificherà le interazioni con la Pubblica Amministrazione e i clienti.
L’integrazione con sistemi di pagamento digitale e firma elettronica (già possibile con l’app apposita basata sulla CIE) promette di trasformare il wallet in una piattaforma completa per la gestione dell’identità professionale. Gli ordini professionali potranno sviluppare modelli di business come “issuer” di attributi digitali certificati.
La sicurezza del sistema si basa su autenticazione biometrica, SPID o CIE, garantendo elevati standard di protezione contro frodi e utilizzi impropri. La riduzione della burocrazia cartacea accelera le procedure amministrative e riduce la necessità di recarsi fisicamente agli sportelli. L’impatto ambientale positivo deriva dalla diminuzione dell’uso di carta per documenti e certificati.
La comodità d’uso rappresenta il principale vantaggio percepito dagli utenti, che possono gestire i propri documenti direttamente dallo smartphone. Ma in realtà è una vera e propria trasformazione digitale che potrebbe dare un colpo mortale alle lungaggini burocratiche, rendendo quasi inutili centinaia di migliaia di posizioni nelle amministrazioni pubbliche e private i cui ruoli sono legati alle inefficienze del mondo fisico rispetto al flusso rapido e sicuro delle informazioni sull’identità in quello digitale. C’è però più di un però, sia da noi che in Europa.
Le lungaggini di Bruxelles
L’Europa procede invece con tempi più lunghi e maggiori complessità dovute al coordinamento tra 27 Stati membri. L’European Digital Identity Wallet (EUDI Wallet) è previsto per il 2026, ma i disaccordi tra Germania, Francia, Paesi Bassi e Spagna su privacy, interoperabilità e standard tecnici stanno rallentando il processo. Le divergenze riguardano principalmente le norme di certificazione, i protocolli di sicurezza e i modelli di governance del sistema. La mancanza di un quadro normativo uniforme complica la standardizzazione e la possibilità di aggiornamenti rapidi senza lunghe procedure burocratiche.
La realtà è che 17 Stati membri hanno già rilasciato versioni prototipali di wallet conformi alle regole europee, ma la frammentazione rimane elevata. I test cross-border sono stati rinviati alla fine del 2025, posticipando la verifica dell’interoperabilità transfrontaliera. Alcuni Paesi come Olanda, Svezia e Norvegia hanno raggiunto livelli di diffusione dell’identità digitale superiori al 90% della popolazione. Altri Stati sono ancora in fase di sviluppo o sperimentazione, creando un panorama europeo estremamente disomogeneo.
La necessità di uno standard continentale
L’interoperabilità europea rappresenta l’elemento cruciale per il successo del progetto digitale continentale. La libera circolazione delle persone nell’Unione Europea richiede sistemi di identificazione reciprocamente riconosciuti e tecnicamente compatibili. Il rischio di creare “isole digitali” nazionali incompatibili vanificherebbe i vantaggi dell’integrazione europea.
La standardizzazione dei protocolli di sicurezza e privacy garantirebbe protezione uniforme dei dati personali in tutti gli Stati membri. Solo che il rapporto tra Stato e cittadino è considerato una prerogativa fondamentale delle singole nazioni, e l’idea di delegarla in toto a sistemi informatici progettati e magari un giorno anche gestiti da Bruxelles non piace per niente.
Tuttavia, dal punto di vista tecnico, centralizzare ha senso. I costi di sviluppo e manutenzione si riducono significativamente con un approccio coordinato rispetto a 27 sistemi nazionali separati. L’innovazione tecnologica beneficia della condivisione di risorse e competenze a livello continentale.
La competitività dell’Europa nel settore dell’identità digitale dipende dalla capacità di presentare un fronte unito verso gli standard globali. Le economie di scala derivanti da un mercato unico digitale favoriscono lo sviluppo di soluzioni innovative e competitive.
Il progetto italiano negli aeroporti
In Italia l’ente per la regolamentazione del volo, Enac, ha avviato un progetto che permette di imbarcarsi senza dover usare un documento di identità. Solo per le destinazioni Schengen (più Svizzera e Paesi del Nord Europa) ma solo se non ci sono altri problemi di sicurezza internazionale e comunque sempre con un documento in tasca per eventuali controlli e per ritornare. Il paradosso della sperimentazione Enac sugli aeroporti italiani evidenzia i limiti dell’approccio nazionale isolato.
L’Italia finora è l’unico Paese europeo ad aver introdotto procedure semplificate per l’imbarco sui voli nazionali e Schengen, consentendo l’accesso con la sola carta d’imbarco. Tuttavia, IT Wallet (nell’app IO) non viene riconosciuto negli altri Stati membri, limitando la sua utilità ai confini nazionali. I documenti fisici rimangono necessari per tutti i viaggi internazionali, compresi quelli verso Paesi che teoricamente dovrebbero accettare il sistema italiano. La vera rivoluzione digitale negli aeroporti arriverà solo con il wallet europeo del 2026.
L’agenda di sviluppo del wallet italiano presenta ancora alcune lacune significative che dovranno essere colmate nei prossimi anni. Il passaporto digitale non figura tra le priorità immediate, lasciando irrisolto il tema dei viaggi extra-UE. Le tessere professionali specifiche per singoli ordini richiedono accordi individuali che potrebbero richiedere tempi lunghi. I documenti universitari e le certificazioni internazionali necessitano di standard condivisi a livello globale. L’integrazione completa con l’ecosistema europeo dipende dal successo del progetto EUDI Wallet.
Verso la rivoluzione del 2026
Il calendario per il wallet europeo rimane serrato ma realistico, con test su 360 enti pubblici e privati già in corso. La sfida tecnica principale consiste nel far dialogare sistemi nazionali sviluppati con logiche e tecnologie diverse. L’obiettivo finale è trasformare lo smartphone nel documento universale riconosciuto in tutti gli Stati membri dell’Unione. Il successo del progetto non è scontato: tutto dipenderà dalla capacità di bilanciare innovazione tecnologica, sicurezza e rispetto della privacy.
L’Italia si trova in una posizione di vantaggio temporale ma rischia l’isolamento digitale se il resto d’Europa non raggiungerà rapidamente standard compatibili. Il 2026 rappresenta l’anno della possibile svolta continentale, quando tutti i sistemi nazionali dovranno convergere verso l’EUDI Wallet. La transizione dal wallet nazionale a quello europeo costituisce la vera scommessa dell’interoperabilità digitale. La promessa finale è ambiziosa: dal check-in online al controllo al gate, dal documento digitale negli uffici all’identificazione presso gli uffici pubblici o privati, tutto gestito attraverso un’unica app sicura e riconosciuta in tutta Europa.

Ora, non nascondiamocelo: è certo che il percorso verso l’identità digitale europea unificata presenta sfide complesse ma opportunità straordinarie per cittadini, professionisti e istituzioni. L’Italia ha scelto di fare da apripista, anticipando i tempi e sperimentando soluzioni innovative che potrebbero influenzare lo sviluppo del sistema continentale.
Si è presa anche un grande rischio, perché i soldi investiti potrebbero essere stati gettati al vento se l’evoluzione tecnologica si allontanerà da quella che il nostro Paese ha scelto di seguire, confidando nella coerenza del progetto europeo: un improvviso cambio di direzione vorrebbe dire rifare tutto e quindi aver sprecato molto, anzi moltissimo. È il paradosso dell’innovatore: chi compra la tecnologia migliore, più potente e performante, è sempre l’ultimo arrivato. Il pioniere alle volte spreca solo tempo e risorse.
Il successo finale dipenderà dalla capacità di trasformare l’attuale frammentazione in un ecosistema digitale coeso e funzionale per tutti gli europei. È una sfida europea, oltre che interna ai singoli stati come il nostro, che ancora non sanno scegliere tra Spid e CIE, tra provider privati e sistemi supportati dallo stato (identità e firma digitale). È un finale aperto, dove niente è scontato.














