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Perché l’AI che traduce non cancella il valore di imparare le lingue

La scena si ripete ogni giorno nelle sale riunioni virtuali di mezzo mondo: un manager giapponese espone il piano trimestrale, i colleghi brasiliani annuiscono mentre ascoltano la traduzione in portoghese nei loro auricolari, il team tedesco interviene in tedesco e tutti capiscono. Non è fantascienza, è già realtà in alcune aziende che testano le ultime tecnologie di traduzione simultanea basate sull’intelligenza artificiale.

Google ha alzato il sipario durante l’I/O 2025 presentando una funzione per Meet che non si limita a tradurre le parole, ma clona la voce dell’oratore mantenendo tono, ritmo e inflessioni nella lingua di destinazione (e già lo fa con la posta). Microsoft rilancia con Teams “Translator“, promettendo di simulare la voce di ciascun partecipante in nove lingue diverse entro i primi mesi del 2025.

Apple non resta a guardare: con iOS 26, previsto per fine dell’anno (ma la funzionalità arriverà più avanti), gli AirPods diventeranno interpreti personali, traducendo in tempo reale le conversazioni e riproducendo l’audio tradotto direttamente negli auricolari. Nel frattempo, startup come Wordly conquistano il mercato degli eventi internazionali con sistemi che gestiscono simultaneamente 60 lingue, mentre i ricercatori dell’Università di Washington sviluppano “Spatial Speech Translation“, capace di tradurre più voci sovrapposte mantenendo la direzionalità spaziale del suono.

La promessa è seducente: un mondo dove le barriere linguistiche cadono come le mura di Gerico al suono delle trombe digitali. Ma quanto di questa promessa è già realtà e quanto resta ancora miraggio?

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Immagine di DeepL

La macchina che parla con la voce umana

Il cuore pulsante di questa rivoluzione è AudioLM, la tecnologia sviluppata da DeepMind che Google ha integrato in Meet. A differenza dei sistemi tradizionali che prima trascrivono, poi traducono e infine sintetizzano, AudioLM trasforma direttamente l’audio da una lingua all’altra attraverso un’architettura Transformer che mappa il parlato in token discreti. Il risultato è davvero notevole: la voce tradotta mantiene le caratteristiche uniche dell’originale, dalle pause alle enfasi, dall’ironia velata all’entusiasmo genuino.

Microsoft segue una strada simile con il suo “Interprete” per Teams, promettendo che ogni partecipante potrà parlare nella propria lingua madre mentre gli altri ascolteranno una versione tradotta che suona esattamente come la voce originale.

Questo tipo di cose in realtà si potevano già fare da tempo, ma c’era un grosso limite, un problema che le rendeva sgradevoli da utilizzare: la latenza. Lo storico tallone d’Achille della traduzione simultanea, però, adesso scende sotto il secondo, almeno nella maggior parte dei casi. Le demo mostrano conversazioni fluide dove l’attesa tra domanda e risposta tradotta è quasi impercettibile. Eppure, proprio quando la tecnologia sembra aver raggiunto la perfezione, emergono crepe nel sistema che nessun algoritmo riesce ancora a impedire.

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I limiti strutturali

Dietro la magia tecnologica si nascondono limiti strutturali che nessun algoritmo può superare. E forse è meglio così: imparare una lingua resta un viaggio nella mente degli altri che nessuna macchina può replicare. Ma bisogna capire di cosa parliamo, però. Vediamo quindi i perché di questi limiti invalicabili.

Il primo limite strutturale della traduzione AI emerge nel territorio minato del contesto culturale. Quando un italiano dice “fare il ponte” riferendosi a un weekend lungo, l’AI traduce letteralmente “building a bridge“, lasciando l’interlocutore americano a chiedersi quale infrastruttura stia progettando il collega nel fine settimana.

Le espressioni idiomatiche diventano trappole mortali: “prendere due piccioni con una fava” è in apparentemente in un improbabile consiglio di caccia, mentre “avere le mani in pasta” suggerisce delle velleità culinarie alquanto inappropriate.

Il problema non è solo tecnico ma filosofico: ogni lingua porta con sé una visione del mondo, un modo di organizzare la realtà che va oltre la semplice corrispondenza lessicale.

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Quando la macchina s’ingegna

I sistemi più avanzati tentano di aggirare l’ostacolo con enormi database di espressioni comuni per risolvere le ambiguità, ma il linguaggio vivo sfugge continuamente alle maglie dell’algoritmo. L’ironia sottile, il sarcasmo velato, i riferimenti culturali impliciti: tutto ciò che rende la comunicazione umana ricca e sfumata diventa un campo minato per l’AI. C’è un aneddoto al riguardo che viene raccontato da amici medici.

In una recente conferenza medica internazionale tradotta automaticamente, l’espressione “the patient is stable” venne resa in italiano come “il paziente è nella stalla“, con conseguenze che oscillano tra il comico e il tragico. La macchina aveva tecnicamente ragione (“stable” può significare stalla) ma aveva completamente mancato il contesto.

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I fantasmi nelle lingue minori

Se per le lingue maggiori l’AI mostra muscoli sempre più sviluppati, il panorama cambia drasticamente quando si esce dai sentieri battuti. Il machine learning ha fame di dati: per addestrare un modello servono milioni di esempi di traduzioni corrette, registrazioni audio di qualità, testi paralleli verificati. Per lingue come l’inglese, lo spagnolo o il cinese mandarino, il banchetto è ricco. Ma cosa succede con il gaelico irlandese, il ladino o una delle 7.000 lingue parlate nel mondo? E cosa succede con l’italiano?

La risposta è impietosa: la qualità della traduzione crolla verticalmente. Non è solo questione di vocabolario limitato, ma di strutture grammaticali che l’AI fatica a mappare, di suoni che non trova nei suoi database, di concetti che non hanno equivalenti diretti.

Il risultato è un apartheid linguistico digitale dove chi parla una lingua “minore” resta escluso dalla rivoluzione della traduzione istantanea. Paradossalmente, proprio la tecnologia che promette di abbattere le barriere linguistiche rischia di rafforzare l’egemonia di poche lingue dominanti. Perchè le traduzioni “vengono meglio” innanzitutto se c’è l’inglese di mezzo, dall’una o dall’altra parte del flusso comunicativo, e poi se “l’altra lingua” è lo spagnolo, il cinese mandarino, il portoghese, il tedesco o, al limite, il francese. Già l’italiano, poveri noi, è considerato poco.

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Il cervello non è un’app

Ma anche ammettendo che un giorno l’AI risolva tutti questi problemi tecnici, resterebbe una questione più profonda: cosa perdiamo quando smettiamo di imparare le lingue? Il cervello umano è plastico, si modella attraverso l’uso come un muscolo attraverso l’esercizio. Imparare una lingua straniera non significa solo acquisire un codice di comunicazione alternativo, ma letteralmente ricablare le connessioni neurali, creare nuovi percorsi di pensiero, sviluppare forme diverse di categorizzare la realtà. Gli studi di neuroscienze mostrano che i bilingui hanno maggiore flessibilità cognitiva, migliore capacità di problem solving, resistenza superiore al declino cognitivo legato all’età.

C’è poi l’aspetto dell’empatia culturale, quella comprensione profonda che va oltre le parole. Quando si impara che i giapponesi hanno decine di modi per scusarsi, ciascuno calibrato su una specifica situazione sociale, non si sta solo memorizzando vocaboli ma entrando in una forma mentis dove la gerarchia e il rispetto hanno sfumature impensabili per un occidentale. Quando si scopre che l’inuit non ha davvero cento parole per la neve (è un mito) ma che l’italiano ha decine di termini per la pasta, si tocca con mano come ogni cultura privilegi ciò che le sta a cuore. La traduzione automatica può rendere il contenuto accessibile, ma non può trasmettere questa consapevolezza profonda.

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Un esempio che viene da lontano

Le difficoltà non sono solo di vocabolario ed espressioni idiomatiche. Non dimentichiamoci che c’è anche la struttura profonda della lingua, che può presentare diversità inconciliabili.

Come la lingua parlata dagli alieni di Arrival, il film e il libro da cui è stato tratto scritto dal bravissimo Ted Chiang, che permette di parlare e ricordare il futuro: geniale invenzione letteraria, ma al tempo stesso esempio lucidissimo di come parlare una ligua modelli il nostro cervello e la nostra percezione della realtà. E non parlarla semplicemente ci impoversica.

Un altro esempio. Chi ha studiato le lingue classiche, nello specifico il greco antico, conosce un tempo del verbo che non esiste nelle lingue moderne: l’aoristo. Il tempo verbale dell’aoristo segna un’azione puntiuale che è compiuta nel passato, senza enfasi sulla sua durata o sul suo svolgimento: non indica se l’azione è iniziata, in corso o conclusa (come fanno i nostri tempi verbali) ma semplicemente che è avvenuta.

Il significato temporale nell’aoristo è assente se non all’indicativo: ha un valore aspettuale senza un riferimento temporale specifico. Come si rende l’aoristo in italiano (o nelle altre lingue europee) che non hanno questo tempo? La comprensione e poi la traduzione dell’aoristo è stata la croce e delizia di generazioni di studenti del liceo classico. La risposta è semplice: si rende o con una equivalenza o con una perifrasi. Tuttavia, chi traduce, cioè chi “capisce” l’aspetto verbale nell’aoristo, “vive” un’esperienza cognitiva diversa.

Infatti, conoscerlo non è neutro. Impararlo e sapere che esiste permette di capire una dimensione in più del pensiero di chi, per esempio, ha detto la famosa massima sapienziale “Conosci te stesso” (potrebbe essere stato Socrate o Talete o un altro sapiente dell’antichità greca). Infatti, nell’originale greco viene usato l’imperativo aoristo.

L’aoristo imperativo indica un’azione che si vuole compiere in modo puntuale, senza riferimento alla sua durata o ripetizione, e spesso con un senso di urgenza o decisione. Quindi, la frase “conosci te stesso” in originale, usando l’aoristo imperativo, suggerisce un’esortazione a conoscere se stessi in modo immediato e risoluto, senza temporeggiare e senza stare a perdere tempo su “quando” va fatto, se è un processo nel passato che dura a lungo o dura poco. No, “conosci te stesso” è un imperativo categorico per una conscenza di sé immediata e definitiva, molto più potente di un semplice imperativo presente.

Come si rende una sfumatura simile in un’altra lingua? Semplicemente, non si può: va conosciuta per poterla capire e apprezzare. È il motivo per cui alcuni coraggiosi, ad esempio, imparano il russo. Lo fanno per poter gustare nella pienezza della lingua in cui sono stati scritti i capolavori di Tolstoj e di Dostoevskij.

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L’orizzonte del 2030

Torniamo ai nostri apprendisti stregoni dell’intelligenza artificiale. Gli sviluppi annunciati per i prossimi cinque anni promettono meraviglie: traduzione di gruppo con voci multiple distinte spazialmente, supporto per oltre 100 lingue, latenza praticamente azzerata, integrazione seamless in occhiali smart e lenti a contatto.

I ricercatori lavorano su sistemi che catturano non solo le parole ma anche le microespressioni facciali, il linguaggio del corpo, persino le pause significative. Sarà interessante capire come, visto che per esempio la gestualità degli italiani è considerata una vera e propria lingua muta, parallelo alla nostra lingua parlata.

L’obiettivo dichiarato degli apprendisti stregoni è la “traduzione totale”, dove ogni sfumatura comunicativa viene preservata nel passaggio da una lingua all’altra. Eppure, proprio mentre la tecnologia si avvicina a questo traguardo, emerge con chiarezza cosa resterà per sempre dominio esclusivamente umano.

La creatività linguistica, dai giochi di parole alla poesia, dal rap allo stand-up comedy, richiede una comprensione del linguaggio che va oltre qualsiasi mappatura algoritmica. Come tradurre un haiku giapponese preservandone non solo il significato ma il respiro, il ritmo, l’evocazione? Come rendere in inglese la musicalità di Dante o in italiano il flusso di coscienza di Joyce? La traduzione letteraria resterà arte umana perché richiede non solo competenza linguistica ma sensibilità estetica, bagaglio culturale, intuizione creativa.

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Complementari, mai sostitutive

La vera saggezza sta nel vedere queste tecnologie per quello che sono: strumenti straordinari che amplificano le capacità umane senza sostituirle. Un chirurgo che opera in remoto grazie alla traduzione simultanea salva vite che altrimenti sarebbero perse. Un’azienda che abbatte le barriere linguistiche nelle riunioni diventa più efficiente e inclusiva. Studenti di tutto il mondo accedono a lezioni di professori che parlano lingue sconosciute. Sono conquiste da celebrare, non da temere. Ma non sostituiscono il senso di imparare un’altra lingua.

Ma proprio come il navigatore GPS non ha reso obsoleto il senso dell’orientamento (o almeno, così ci piace pensare), allo stesso modo la traduzione AI non dovrebbe farci dimenticare il valore dell’apprendimento linguistico. Anzi, paradossalmente lo rende più prezioso: in un mondo dove tutti possono comunicare superficialmente con tutti, chi padroneggia davvero una lingua straniera possiede una marcia in più. La differenza tra sopravvivere in una lingua e viverla pienamente resta abissale. La tecnologia ci regala la sopravvivenza comunicativa; sta a noi conquistare la vita piena del multilinguismo, con tutto il suo carico di ricchezza cognitiva, culturale ed emotiva.

Tutte le notizie relative all’intelligenza artificiale di Macity si trovano a partire da questa pagina.

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