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La Cina esige la laurea per gli influencer. E se lo facessimo anche noi?

Nella babele digitale globale, dove chiunque può proclamarsi esperto di qualsiasi cosa con un telefono e una connessione internet, la Cina ha deciso di tirare il freno. Attenzione, non stiamo parlando di censura politica o di cancellazione dei temi sgraditi al regime (anche se poi i rilievi sulla libertà di espressione vengono fatti e giustamente) ma di semplice buon senso. Quel buon senso che sembra essere scomparso dal resto del pianeta.

Pechino ha deciso dal 2022, con un codice di condotta rafforzato nel 2025, che chi vuole parlare online di medicina, diritto, finanza ed educazione deve dimostrare di avere le competenze necessarie. Non basta più un milione di follower e un sorriso smagliante. Invece, serve una laurea, un’abilitazione professionale, un certificato che attesti che dietro quei consigli sulla salute o sugli investimenti c’è qualcosa di più solido di una chiacchierata al bar.

Le piattaforme come Douyin, Weibo e Bilibili devono ora verificare le credenziali degli influencer e bloccare chi non è in regola. L’obiettivo dichiarato è combattere la disinformazione e proteggere i consumatori da informazioni potenzialmente dannose. Perché un consiglio sbagliato su un farmaco o su un investimento finanziario può avere conseguenze reali sulla vita delle persone. Ma c’è anche altro, come sempre quando si parla di Cina. E qui rientrano dalla finestra i discorsi messi fuori dalla porta per quanto riguarda la censura. Ovverosia, il controllo dell’informazione, la selezione delle voci ammesse al dibattito pubblico, la censura preventiva mascherata da tutela dei cittadini.

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La misura è stata introdotta dalla Amministrazione Nazionale di Radio e Televisione e dal ministero della Cultura e del Turismo cinesi attraverso un codice di condotta per i conduttori online. Gli influencer hanno avuto due mesi per presentare certificati, diplomi o credenziali verificate. Inoltre, quando lavorano e producono i loro contenuti questi devono citare chiaramente le fonti delle informazioni e specificare se utilizzano elementi drammatizzati o generati da intelligenza artificiale.

La ratio giuridica di questo provvedimento è impeccabile: garantire che chi parla di argomenti complessi abbia davvero la preparazione per farlo. Ma come hanno notato gli osservatori, si tratta di un sistema che autorizza la parola in base all’appartenenza. Chi non rientra nel circuito accademico o statale perde il diritto di parlare. E poi c’è l’aspetto politico, immancabile quando Pechino si fa carico di esplicitare le linee guida di qualsiasi cosa. Il codice proibisce anche contenuti che indeboliscono o distorcono la leadership del Partito Comunista Cinese, vietano l’uso di tecnologie deepfake per manipolare immagini di leader politici e bandiscono contenuti che mostrano sprechi alimentari o uno stile di vita eccessivamente lussuoso. Perché, nonostante l’apertura al mercato, il regime della Repubblica popolare cinese è comunque e in ogni caso comunista, e quindi contrario agli eccessi del capitalismo. La ricchezza è “oscena”, anche se desiderata e persino praticata da un numero crescente di figli dell’Impero di mezzo.

Veniamo ai numeri, perché sono meno noti ma fanno impressione. A chi si rivolge questa normativa? A un oceano di gente: due volte l’intera popolazione dell’Unione europea. Infatti, la Cina ha oltre 700 milioni di persone attive nel livestreaming, il 68% della popolazione online. Un mercato immenso dove gli influencer possono vendere milioni di dollari di prodotti in poche ore. Ma anche un terreno dove la disinformazione prolifera e dove le autorità temono che voci troppo influenti sfuggano al controllo. A giugno 2022, uno dei più famosi influencer cinesi è improvvisamente scomparso dalle piattaforme dopo aver promosso un gelato a forma di carro armato alla vigilia dell’anniversario della protesta di piazza Tienanmen del 1989. Piccole cose che filtrano (altre no, non le sappiamo) e confermano che per il regime cinese il controllo dell’opinione pubblica non può essere lasciato agli opinionisti fai-da-te della rete.

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Foto di Nick Fewings – Unsplash

Cosa succederebbe se lo facessimo anche noi

Comunque, censura e libertà di espressione a parte, proviamo per un momento a immaginare una normativa simile in Italia o in Europa. Niente più consigli finanziari su TikTok da chi non ha una laurea in economia. Niente più ricette miracolose per dimagrire da influencer senza formazione medica dimostrabile. Niente più consulenze legali improvvisate da chi ha visto molti episodi di serie televisive ma non ha mai aperto un codice. In un attimo verrebbe spazzata via tutta la sfera social e perderemmo la totalità o quasi dei nostri influencer, quelli bravi e quelli no.

L’Italia invece, come molti altri paesi europei, ha scelto una strada diversa con il Codice di condotta AGCOM del febbraio 2025, che punta sulla trasparenza e la responsabilità senza richiedere titoli accademici. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha stabilito che gli influencer devono rispettare i principi di obiettività, completezza e veridicità delle informazioni, contrastare la disinformazione e indicare chiaramente le fonti utilizzate. Ma nessuno chiede loro una laurea.

In Italia il mercato dell’influencer marketing ha raggiunto 280 milioni di euro nel 2021 e circa 20 milioni di italiani tra i 18 e i 54 anni seguono almeno un influencer. Da questo punti di vista siamo dei “campioni”, perché la percentuale di influencer sulla popolazione italiana è la più alta d’Europa. I settori più coinvolti sono moda e bellezza, viaggi, cibo, salute e attività fisica. Proprio la salute: un terreno delicatissimo dove le informazioni sbagliate possono fare danni enormi.

Per questo motivo l’Unione Europea sta valutando la possibilità di regolamentare gli influencer sanitari sui social media, dando priorità ai creatori di contenuti credibili. Uno studio dell’Università di Vienna ha dimostrato che circa il 30% dei giovani tra 15 e 25 anni segue influencer della salute e soprattutto acquista prodotti da loro consigliati. Google applica criteri più severi per valutare i contenuti YMYL (Your Money Your Life), cioè quelli che possono influenzare salute, sicurezza o stabilità finanziaria degli utenti, privilegiando fonti che dimostrano esperienza, competenza, autorevolezza e affidabilità.

La competenza come forma di influenza autentica

Il dibattito sulla regolamentazione degli influencer tocca uno dei nervi scoperti della nostra epoca. Da una parte c’è la libertà di espressione, un diritto fondamentale che non può essere limitato arbitrariamente. Dall’altra c’è la responsabilità verso chi ascolta e la necessità di proteggere le persone da informazioni false o pericolose. In democrazia l’equilibrio tra regolamentazione e tutela della libertà di espressione deve essere attentamente calibrato per evitare un eccesso di controllo che si traduca in censura di fatto.

Il modello cinese è chiaramente una soluzione radicale e non democratica: chi non ha le credenziali giuste semplicemente non può parlare. Efficace contro la disinformazione, certo, ma anche pericolosamente vicino alla censura ideologica. Inaccettabile da noi a meno di non temperarlo con una serie di altre indicazioni. In alternativa, il modello europeo e italiano punta invece sulla responsabilizzazione: puoi dire quello che vuoi ma devi essere trasparente, verificabile e rispondere delle tue affermazioni. Meno invasivo ma forse meno efficace nel fermare informazioni pericolose prima che si diffondano.

C’è però una terza via che nessuno dei due sistemi esplora davvero: educare il pubblico a riconoscere le fonti affidabili e a sviluppare spirito critico. Perché il vero problema non sono tanto gli influencer improvvisati (che lo sono, ma non dovrebbero avere follower in una società più educata) quanto un pubblico che non sa distinguere un parere informato da una chiacchierata improvvisata. Per anni si è pensato che il successo online dipendesse solamente dalla creatività o dalla capacità di attrarre follower, ma emerge un principio diverso: la competenza come forma di influenza autentica.

Il futuro della parola pubblica

La questione della regolamentazione degli influencer è destinata a crescere di importanza nei prossimi anni. A livello globale l’influencer marketing rimane largamente non regolamentato. E questo è chiaramente voluto, almeno in buona parte, perché nei paesi capitalisti, cioè gli Usa e poi noialtri, la mancanza di regolamentazione permette al mercato più selvaggio di fiorire e fa girare più soldi. Ora la Cina ha stabilito un precedente che potrebbe essere adottato da altri territori. Ma ogni paese dovrà trovare il proprio equilibrio tra protezione dei cittadini e libertà di espressione, tra controllo della qualità delle informazioni e pluralismo del dibattito pubblico.

Forse la vera domanda non è se serve una laurea per parlare di salute o finanza online. La vera domanda è: come facciamo a garantire che le informazioni che circolano siano affidabili senza creare un sistema di censura preventiva? Come proteggiamo le persone dalla disinformazione senza imbavagliare le voci critiche e non convenzionali? Come costruiamo un ecosistema digitale in cui la competenza sia valorizzata ma la libertà di espressione non venga sacrificata?

La Cina ha dato la sua risposta: controllo, certificazione, selezione. È una mossa furba perché unisce l’utilità pubblica agli interessi del Partito. L’Occidente sta ancora cercando la propria, oscillando tra autoregolamentazione, sanzioni e educazione del pubblico, mentre una elite di tecno-manager stanno facendo i soldi. Infatti, non dobbiamo dimenticare che, mentre pensiamo alle regolamentazioni future che non ci sono, nel frattempo milioni di persone ogni giorno prendono decisioni sulla loro salute, sui loro soldi, sulla loro vita basandosi su consigli di perfetti sconosciuti che hanno solo il vantaggio di essere fotogenici e bravi con le parole.

La verità è che probabilmente serve un po’ di tutto: più competenza certificata quando si parla di argomenti sensibili, più trasparenza su chi dice cosa e perché, più educazione del pubblico a riconoscere le fonti affidabili. E forse anche il coraggio di ammettere che la libertà di espressione non include automaticamente il diritto di dare consigli medici o finanziari senza avere la minima idea di cosa si sta parlando. Perché due milioni di follower e un filtro Instagram perfetto non vogliono dire automaticamente essere competenti su una determinata questione.

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